domenica 31 ottobre 2021

'Night Mother all'Hampstead Theatre


Quasi quarant'anni fa 'Night Mother debuttava a Cambridge, Massachusetts. L'opera è l'unico successo di Marsha Norman, ma non c'è nulla di cui vergognarsi: il dramma ha vinto il Pulitzer, è rimasto in cartellone a Broadway per quasi quattrocento rappresentazioni ed è stato riadattato in un film con Anne Bancroft e Sissy Spaceck, Una finestra nella notte. La prima londinese è avvenuta all'Hampstead Theatre nel 1985 e ora, trentasei anni dopo, il teatro ospita il primo revival del dramma sulle scene britanniche, un nuovo allestimento diretto da Roxana Silbert

Jessie è prossima ai quarant'anni ed è tornata da poco a vivere con la madre Thelma nell'America rurale. Non si può certo dire che la vita le abbia sorriso: è divorziata, il figlio è in prigione per furto e la sua grave epilessia le impedisce di trovare un lavoro. Questi sono alcuni dei motivi che l'hanno spinta a decidere di suicidarsi, come rivela alla madre. Thelma da prima non le crede, ma quando la donna si rende conto che la figlia fa sul serio cerca disperatamente di farle cambiare idea ricorrendo ad ogni argomentazione...

Se devo essere sincero, ammetterò subito che non ho mai amato 'Night Mother. Mi è capitato di leggere il copione un paio di volte nel corso degli anni e l'ho sempre trovato stucchevole, poco realistico e – francamente – un po' noioso. Ma del resto si sa, il teatro vive sulle scene e non sulla pagina: quello che magari non sembra funzionare durante una lettura può diventare autentica dinamite teatrale. Questo, sfortunatamente, non è il caso e ho rivisto sul palco dell'Hampstead le stesse pecche che ho letto nel copione, ma amplificate da una regia maldestra e un casting non propriamente riuscito. Il problema dei two-hander – le opere teatrali con solo due personaggi – è che i due attori devono essere perfettamente calibrati e dello stesso livello. Quando questo successo la pièce diventa pura magia e, come nel caso di Camp Siegfried, vedere due grandi attori riempire e occupare la scena è come vedere una finale di tennis tra campionissimi. Quando questo non succede, invece, è come guardare una partita di birra pong giocata da due persone prossime al coma etilico.

Stockard Channing (Thelma) e Rebecca Night (Jessie)

Rebecca Night non è certo una cattiva attrice, ma qui si trova a interpretare un ruolo che semplicemente non è adatto a lei.  La prima interprete di Jessie fu il Premio Oscar Kathy Bates e coloro che l'hanno vista nella parte ne parlano ancora con ammirazione. Il personaggio di Jessie le era stato cucito addosso e la Bates, che all'epoca aveva solo un paio d'anni più della Night, portava in scena una persona che era evidentemente arrivata al capolinea. Rebecca Night è semplicemente troppo giovane e bella per il ruolo e non riesce mai ad apparire come qualcuno a cui tutte le porte sono state sbattute in faccia. Al di là della bellezza e della giovinezza, all'attrice manca quell'aria consumata, quella sinistra determinazione che sorge quando si è in trappola: è, in poche parole, poco credibile nella parte. La regia della Silbert non aiuta per niente e spesso sembra non sapere cosa far fare alle sue due attrici, che vagano sul palco in cerca di uno scopo e non riescono a trovare il dramma dentro il dramma.

Se c'è un motivo per vedere 'Night Mother è sicuramente Stockard Channing. Noi la conosciamo tutti come Rizzo in Grease, ma la Channing è un'attrice di primissimo livello con una lunga carriera a Broadway. Candidata a sei Tony Award e vincitrice di uno, l'attrice porta un po' del pathos e del dinamismo di cui la pièce ha disperatamente bisogno e vederla affrontare ed elaborare la notizia dell'imminente suicidio della figlia vale comunque il prezzo del biglietto. Forse con una regista migliore e una co-protagonista al suo livello, la Channing sarebbe riuscita a salvare la serata e rendere questo revival di 'Night Mother un evento teatrale, ma non trovando l'aiuto che le serve riesce almeno a brillare come il proverbiale faro nella notte.

Anne Pitoniak e Kathy Bates in 'Night Mother all'American Repertory Theatre nel 1982


È interessante notare che per quanto la prima produzione del dramma di sia rivelata un trionfo, nessuno degli allestimenti proposti negli ultimi quarant'anni è mai riuscito ad eguagliarne il successo. Né la prima londinese, né il secondo allestimento di Broadway del 2002, né tantomeno il film hanno ottenuto le stesse recensioni o consenso di pubblico. La verità è che ora il testo sembra tenue, la dimensione psicologica un po' artefatta e, come l'interpretazione della Night, poco convincente. Nessuno potrebbe vedere oggi l'opera a teatro e pensare che abbi vinto il Pulitzer e sia rimasta in scena a New York per un anno consecutivo. Del resto succede, le opere teatrali, così come le opere letterarie, invecchiano come le persone: alcune meglio ed altre peggio. La longevità di un'opera teatrale è difficile da prevedere perché, a differenza di un romanzo o di una poesia, il suo successo dipende da un'infinità di fattori: dal cast alla regia, dal pubblico allo scenografo,  sono molti gli elementi che determinano il successo o il fallimento di un dramma. Il Master Class del compianto Terrence McNally fu un successo a Broadway nel 1995 e vinse il Tony Award alla migliore opera teatrale; quando fu riproposto a New York nel 2012 i critici furono concordi dell'affermare che neanche l'attrice più talentuosa avrebbe potuto salvare un testo tanto mediocre. Forse solo chi si è seduto su una poltrona del John Golden Theatre nel 1983 e ha visto Anne Pitoniak e Kathy Bates recitare nei panni di madre e figlia sotto la regia di Tom Moore può veramente dire di aver visto e amato 'Night Mother.  A noi purtroppo rimane solo un testo che, forse, andrebbe definitivamente archiviato.

In breve. Neanche Stockard Channing riesce a salvare il mediocre allestimento di un dramma da dimenticare. 

★★

Metamorphoses alla Sam Wanamkaer Playhouse


Pochi autori hanno influenzato la cultura occidentale quanto Ovidio. Dante lo incontra nel limbo insieme ad altri grandi poeti come Omero, una scelta che ha suscitato perplessità in alcuni critici dell'ottocento e primo novecento, quando Ovidio era caduto in disgrazia. Ma non c'è da stupirci: gli echi delle Metamorfosi si sentono ovunque nell'Inferno – mai tanto evidenti quanto nel XXIV canto – e se pensiamo a un'altra delle grandi opere della nostra letteratura, il Canzoniere, non possiamo che chiederci quanto sarebbe più corta e più povera se Petrarca non avesse letto Ovidio. Ma questo fenomeno non si limita di certo all'Italia: il primo riconoscimento del genio di Shakespeare a noi pervenuto risale al 1598, quando Francis Meres scrisse che "the sweet witty soul of Ovid lives in mellifluous and honey-tongued Shakespeare". Ovidio è ovunque in Shakespeare: non solo nei sonetti e nei poemi narrativi, ma anche nel teatro. È la "sweet witty soul" di Ovidio ad averlo reso così popolare attraverso i secoli e i millenni, uno stile ricco e arguto, sottile e profondo, che si accompagna a una fantasia senza rivali. Ed è quindi quanto mai appropriate che alla Sam Wanamaker Playhouse, la ricostruzione di un teatro privato del periodo giacobita all'interno del complesso del nuovo Globe Theatre, vadano in scena le Metamorfosi di Ovidio, la titanica opera poetica che influenzò molte delle tragedie e delle commedia che furono rappresentate al Blackfriars Theatre.

Steffan Donnelly

Scritta da Sami Ibrahim, Laura Lomas e Sabrina Mahfouz, questa nuova riduzione teatrale delle Metamorfosi racconta una dozzina dei miti più noti nell'arco di quasi novanta minuti. Mentre l'acclamato adattamento di Mary Zimmerman stupiva per la sua poesia e la sua regia sofisticata, le Metamorphoses del Globe rifiutano effetti speciali per concentrarsi sul potere dello story-telling: al contrario del Macbeth dell'Almeida, qui è l'attore ad essere sempre e comunque al centro dell'attenzione ed è l'attore ad avvinghiare il pubblico con il ritmo intelligente della narrazione. Tra i miti raccontati – come quello di Orfeo, di Fetonte, di Atteone, di Mida e di Filomela – si può individuare un filone narrativo: l'ingiustizia e il prevaricamento, quello degli dei nei confronti degli uomini e quello degli uomini nei confronti delle donne. Oscillando tra momenti comici e altri tragici, la pièce ci racconta dello strapotere e delle sue vittime (solitamente femminili), dell'impossibilità di ottenere giustizia o, almeno, un'ammissione di colpevolezza. I miti sono rimaneggiati per piegarsi alla poetica degli autori – come del resto tutti questi miti sono stati scomposti e riscritti per secoli nei loro infiniti adattamenti letterari, teatrali, operistici o pittorici – e terminano però con una nota positiva, con una speranza di accountability. Al contrario dell'opera ovidiana, queste Metamorfosi terminano con il mito di Fetonte: quando Apollo guarda inorridito la devastazione della terra e la morte del figlio riesce finalmente ad ammettere che la colpa è tutta sua.

Irgan Shamji

I quattro attori – Steffan Donnelly, Fiona Hampton, Charlie Josephine ed Irfan Shamji – si alternano in dozzine di ruoli, portando alla luce il mondo di Ovidio con il solo potere della parola e semplici mezzi teatrali: quando Donnelly racconta dello stupro di Filomela, Josephine mangia voracemente una pesca, per poi sputarla quanto alla principessa ateniese viene mozzata la lingua. La regia di Sean Holmes e Holly Race Roughan è semplice e fantasiosa, ma non priva di pecche: a volte la pièce assume dei toni un po' troppo da scuola di recitazione e la scenografia di Grace Smart rovina soltanto lo splendido fondale in legno della Sam Wanamaker Playhouse. Tuttavia, il risultato finale è notevole e, a lume di candela, i personaggi delle Metamorfosi rivivono ancora una volta raccontando le storie che hanno forgiato il nostro immaginario collettivo, risuonando sempre attuali e moderne.

In breve. Una messa in scena semplice e fantasiosa fa risaltare il potere della parola e della narrazione in una nuova riduzione teatrale del capolavoro di Ovidio.

★★★½

giovedì 28 ottobre 2021

La Traviata alla Royal Opera House


È dal 1994 che l'elegante allestimento di Richard Eyre (Mary Poppins) viene riproposto regolarmente a Covent Garden e non è difficile capire il perché: non sono solo gli splendidi costumi e le belle scenografie ad aver reso questa messa in scena così amata e popolare, ma l'attenzione che Eyre – uno dei grandi registi teatrali britannici del secondo Novecento – mantiene sui legami tra tutti i personaggi. Non è solo l'amore tra Violetta e Alfredo ad essere messo sotto i riflettori, ma anche l'amore filiale tra Alfredo e Giorgio, e lo strano legame che si forma tra la protagonista e Germont. L'allestimento, semplice e classico, ha avuto i suoi alti e bassi nel corso delle oltre centocinquanta rappresentazioni svoltesi alla Royal Opera House, ma la prima di ieri sera si classifica decisamente tra le rappresentazioni più solide e di maggior successo.

Dopo aver trionfato nel ruolo al Metropolitan, Lisette Oropesa (Lucia di Lammermoor) porta la sua Violetta a Covent Garden per la prima volta e, a giudicare dall'ovazione durante la chiamata alla ribalta, non sono il solo ad essere rimasto colpito dal soprano cubano. Grazie alla sua splendida tecnica e grande impatto drammatico, la Violetta della Oropesa è un vero successo, sia nei momenti di maggior virtuosismo che in quelli più intimi. La sua Violetta sa sempre di morte, la malattia non è mai troppo lontana e per questo vive ogni momento con la passione di chi sa che potrebbe essere l'ultimo. Attaccata alla vita ma certa di doverla lasciare, questa Violetta raggiunge livelli davvero superbi nel terzo atto e il suo Addio del passato è tra i momenti più riusciti (e applauditi) della serata. È proprio nei dettagli che la Oropesa fa brillare la psicologia del personaggio e il proprio istinto drammatico, trasformando dei piccoli momenti (come quando canta al dottore "Non mi scordate" o, poco dopo, esplode in un "È tardi!") in pennellate indimenticabili con cui tratteggia con precisione e intelligenza il ritratto di Violetta.

Liparit Avetisyan e Lisette Oropesa nel primo atto

Al suo fianco il tenore armeno Liparit Avetisyan è un bravo Alfredo dalla voce limpida e dalla tempra giovanile: vocalmente è all'altezza della Oropesa durante i loro duetti, ma forse non la eguaglia sul piano della recitazione e i due non sembrano mai davvero innamorati. Ottimo il Germont di Christian Gerhaher, il noto interprete wagneriano che riveste il personaggio di grande umanità: se da un lato il suo Giorgio non assume mai quelle tinte più fosche portate in scena da altri interpreti, dall'altro Gerhaher rende il padre di Alfredo un personaggio estremamente reale e un vero e proprio protagonista della tragedia che si consuma in scena. Antonello Manacorda dirige l'orchestra senza colpi di testa e la partitura di Verdi viene resa in modo diretto a grande beneficio degli interpreti sul palco.

In breve. Un cast di alto livello riporta lustro a uno dei grandi classici del Covent Garden.

★★★★

sabato 23 ottobre 2021

Transverse Orientation al Sadler's Wells Theatre


Dimitris Papaioannou si è affermato come uno dei maggiori nomi del teatro greco degli ultimi quarant'anni. Regista, coreografo e visual artist, Papaioannou è diventato noto al grande pubblico nel 2004, quando fu scelto come direttore artistico per la cerimonia d'apertura delle Olimpiadi di Atene. La sua ultima fatica teatrale, lo spettacolo Transverse Orientation, è appena arrivato sulle scene londinesi dopo tre tappe italiane a Napoli, Torino e Reggio Emilia. 

Gli otto danzatori portano in scena tableaux di grande impatto visivo, in cui Papaioannou esplora archetipi narrativi e visivi della cultura occidentale in generale e greca in particolare. Le immagini create si sviluppano con infinite sfaccettature e su tutte spicca un toro di grande realismo, tramite cui riviviamo le memorie classicheggianti della tauromachia e del rapimento di Europa, ma anche scene più moderne da corrida.

L'assenza di una trama a tratti si fa notare e un'ora e tre quarti di spettacolo sono un po' troppi senza una narrazione che tiene insieme il tutto. Il genio creativo di Papaioannou, comunque, continua ad emergere, così come la sua rara capacità di creare scene in cui il grottesco convive con la vera bellezza e la ripetitività si tinge di ironia. Movimenti e gestualità nello stile di Pina Bausch assumono toni beckettiani: tramite essi Transverse Orientation esplora tematiche esistenziali e si interroga sulla natura umana. La scena finale è forse quella che riassume meglio il pensiero di Papaioannou, unendo un ironico commento sulla futilità dei nostri sforzi all'ammirazione e alla speranza che la bellezza della natura sa suscitare in tutti noi.

In breve. Papaioannou ricorre all'inconscio collettivo per esplorare temi esistenziali in una performance di grande impatto visivo ma non sempre illuminante.

★★★

sabato 16 ottobre 2021

The Dante Project alla Royal Opera House


Nel 2015 il coreografo Wayne McGregor era stato acclamato per aver rivoluzionato la struttura tipica del balletto in tre atti con il suo meraviglioso Woolf Works. Il balletto, riproposto anche alla Scala un paio di anni fa, era una rielaborazione di tre opere di Virginia Woolf – La signora Dalloway, Orlando e Le onde – che, sviluppate ciascuna in un atto diverso, formavano un trittico davvero memorabile. Nessuno dei tre atti era un mero adattamento dei romanzi, dato che McGregor aveva "aperto" i testi come in un quadro cubista, assorbendone il contenuto e riproponendolo in maniera che fosse sì riconoscibile, ma nuova e innovativa. Mentre I Now, I Then era un adattamento ragionevolmente fedele di Mrs Dalloway, il secondo atto Becomings aveva soltanto una vaga rassomiglianza con Orlando, mentre in Tuesday McGregor aveva offerto una lettura altamente astratta e stilizzata di The Waves, che del resto è il più sperimentale dei romanzi della Woolf.

In occasione del settecentesimo anniversario della morte del Sommo Poeta, McGregor torna a riproporre questo modello con The Dante Project, magnificamente portato sulle scene dal Royal Ballet. Vedere il balletto come un adattamento della Divina Commedia sarebbe un errore: una trasposizione integrale dell'opera (anche ammettendo che la danza sia l'espressione artistica migliore) sarebbe impossibile e del resto il coreografo ha altri piani. Così come in Woolf Works, anche in The Dante Project assistiamo a una rarefazione della trama con il passare degli atti. Se in Inferno: Pilgrim riconosciamo diversi episodi della prima cantica, in Purgatorio: Love vediamo come la Vita Nuova sia stata inglobata nel viaggio di espiazione delle anime e in Paradiso: Poema Sacro non ritroviamo più il Paradiso di Cacciaguida e San Bernardo, ma una massima rappresentazione della poetica dantesca della luce.

Gary Avis (Virgilio) ed Edward Watson (Dante)

Il successo del balletto nasce dalla perfetta sinergia tra le coreografia di McGregor, la scenografia di Tacita Dean, il disegno luci Lucy Carter e, immancabilmente, la partitura di Thomas Adès. Acclamata visual artist, Dean sviluppa scene e costumi trattando ciascuna cantica con straordinaria originalità. Il suo inferno non è la fornace che ci immaginiamo, ma una Caina perenne, fredda e buia. Sullo sfondo vediamo una gigantesca lastra di ardesia su cui è stata disegnata una montagna rovesciata: un'immagine bizzarra ed alienante, che suggerisce l'invertimento dell'ordine naturale e la desolazione del luogo, da cui si può vedere una realtà riconoscibile ma troppo lontana per essere raggiunta. In Purgatorio le sette cornici sono rappresentate da semplici sgabelli e su tutto si erge la fotografia di una pianta di Jacaranda. In paradiso la scenografia scompare e su uno schermo al centro del palco viene proiettato un filmato in 35mm che mostra un susseguirsi di cerchi luminosi, ispirati a quelli nei disegni per la Divina Commedia realizzati da Sandro Botticelli negli ultimi anni della sua vita.

I dannati all'Inferno

La Dean è affascinata dall'idea del negativo, nel senso fotografico del termine. I monti dell'inferno appaiono come nel negativo di una fotografia, così come i costumi dei ballerini: nonostante l'assenza di luce, essi sono completamente coperti di nero e i loro peccati – solitamente rappresentati con il colore della pece – vengono portati in scena con il biancore del gesso. È proprio il gesso che ricopre i personaggi a tradire il loro peccato, di cui diventa manifestazione visiva: un peccato che lascia impronte, che aleggia nell'aria e rimane attaccato alla pelle. I ladri hanno le mani coperte di gesso, Paolo e Francesca (gli stupendi Francesca Hayward e Matthew Ball) hanno il gesso sulle zone erogene, mentre Satana (l'ottima Fumi Kaneko) ne è completamente ricoperto. Anche il colore degli abiti di Dante e Virgilio vengono rappresentati in negativo, invertendo i colori attribuiti loro da William Blake. Così il Dante dell'inferno indossa una tunica di un verdino ospedaliero, mentre Virgilio è in giallo.

Edward Watson (Dante) e Sarah Lamb (Beatrice) in Purgatorio

È solo in purgatorio che Dante comincia a colorarsi di rosso, il colore di cui sarà vestito completamente in paradiso. Ed è proprio il secondo atto, quello del purgatorio, ad essere il più bello e commovente. McGregor immagina questo luogo di penitenza ed espiazione come un posto di profonda introspezione e memoria: mentre le anime dell'Inferno usano i ricordi per sminuire i propri errori e deflettere le proprie colpe, le anime purgatoriali si immergono nei ricordi e li accettano. L'atto diventa un'occasione per Dante (e McGregor) di ricordare l'amore per Beatrice (la splendida Sarah Lamb) e lo fa in una meravigliosa sequenza in cui il giovane poeta (Marco Masciari, davvero ottimo) ricrea la scena del primo incontro. Il secondo atto presenta anche il commovente addio di Dante al suo "dolcissimo patre", nonché momenti particolarmente toccanti di espiazione per le anime penitenti. Non più suddivisi in gruppi e scene episodiche, le anime del Purgatorio appaiono come una vera comunità e la partitura di Adès – intelligente ed evocativa, ricca di richiami a Liszt e Čajkovskij – incorpora magistralmente i baqashot, i canti di penitenza e supplica della tradizione sefardita. Il risultato finale dell'atto, dalla durata di appena venticinque minuti, è profondamente toccante e rende Purgatorio: Love la sezione di maggior successo del balletto.


Paradiso: Poema Sacro

Così come i versi danteschi si fanno più rarefatti nella terza cantica, anche le coreografie di McGregor abbandonano ogni tentativo di realismo per dedicarsi a un linguaggio profondamente simbolico e astratto. È la topografia del Paradiso – e non gli angeli e i santi – ad interessargli e forse la miglior descrizione del terzo atto ce la fornisce proprio Dante:

... e quelle anime liete
si fero spere sopra fissi poli,
fiammando, volte, a guisa di comete.

E come cerchi in tempra d’orïuoli
si giran sì, che ’l primo a chi pon mente
quïeto pare, e l’ultimo che voli;

così quelle carole, differente-
mente danzando, de la sua ricchezza
mi facieno stimar, veloci e lente.

                                                                (Par. XXIV, 10-18) 

La partitura di Adès, che dirige anche l'orchestra, vengono modellate da McGregor in coreografie che non rappresentano nessuno degli episodi narrati da Dante nel Paradiso, ma che creano un linguaggio visivo caratterizzato da ariosità e luminosità. L'atto è indubbiamente bello e mostra al pieno gli infiniti talenti dei ballerini del Royal Ballet, ma dopo la grande emotività del Purgatorio Paradiso: Poema Sacro risulta un po' più arido e meno soddisfacente. Migliora però nel finale, quando, dopo un ultimo, toccante pas de deux con Beatrice, a Dante non resta che rimanere a bocca aperta alla visione di quell'"Amor che move il sole e le altre stelle".

Sarah Lamb (Beatrice) ed Edward Watson (Dante) nel terzo atto

Il livello di talento in scena è francamente eccezionale. Adès stesso dirige l'ottima orchestra, in cui spiccano soprattutto le percussioni e i fiati. In scena danzano, oltre al corpo di ballo, ben undici ballerini principali del Royal Ballet, tra cui i sempre eccellenti Marcelino Sambé, Natalia Osipova e Yasmine Naghdi, oltre ai già citati Ball, Hayward, Lamb, Kaneko e, soprattutto, Watson. Edward Watson danza nella compagnia da quasi trent'anni e il 30 ottobre darà l'addio alle scene proprio con il suo Dante. Ballerino feticcio e stretto collaboratore di McGregor, Watson è uno dei danzatori più particolari ed intriganti dell'ultimo quarto di secolo. Con il suo corpo lungo e sottile, gli arti magri e interminabili, Watson si aggira sulla scena come un ragno: la sua agilità ed elasticità disegnano un Dante incredibilmente tormentato, con un piede sempre nella selva oscura. Il suo corpo sofferente lascia trasparire un profondo disagio interiore, che si allevia almeno in parte nel corso della serata. Non è nobile o elegante, ma un'anima che vede qualcosa di sé in tutti gli spiriti dell'Inferno. E anche quando danza in Paradiso, il Dante di Watson è in quel mondo ma non di quel mondo, una figura imperfetta e quasi claudicante che lotta per la perfezione e la pace interiore. È un'interpretazione intensa e memorabile ed è quanto mai appropriato che Watson termini la sua carriera interpretando un altro artista che, come lui, ha sempre spinto oltre il limite di quello che si credeva che la sua arte potesse raggiungere.

Federico Bonelli dopo la sua prima rappresentazione [foto di Rob Sallnow]

Al cast principale capitanato da Watson si alterna un secondo cast – di qualità altrettanto elevata ma con nomi meno noti – che vede nel nostro Federico Bonelli il suo Dante. Bonelli è, per molti versi, l'anti-Watson: dove il futuro pensionato è strano, inquietante e spasmodico, Federico è il classico danseur noble romantico e virile. Mentre Watson è sofferente, Bonelli è emotivo e l'interpretazione che ne risulta è decisamente differente. Senza quel corpo da insetto di Watson, Bonelli fatica a comunicare gli abissi di disperazione che Dante fronteggia all'inferno e anche nella prima cantica il suo è un protagonista profondamente segnato all'amore, come dimostra nell'interesse nei confronti di Francesca e Didone. Il ballerino italiano si riscatta abbondantemente nel secondo atto, dove il suo pas de deux con Beatrice raggiunge un'armonia sconosciuta in Watson: Bonelli è, prima di tutto, un grande partner sulle scene e mentre Watson vive di assoli, Federico dà il meglio di sé quando interagisce fisicamente con altri. In particolare, è nell'ultimo atto che vediamo la più grande differenza: mentre Watson si conferma un Dante che rimane estraneo alla perfezione del paradiso, Bonelli vi prende parte danzando i passi celestiali come se fossero la sua lingua madre. Entrambi i ballerini sono grandi artisti e potete stare sicuri che, qualunque cast vedrete, sarete in ottime mani.

In breve. Pur non riuscendo sempre a ritrovare la grande emotività e coerenza di Woolf Works, McGregor presenta al pubblico un nuovo balletto che anche se non è sempre soddisfacente, riesce comunque ad essere bellissimo. 

★★★★½

giovedì 14 ottobre 2021

Macbeth all'Almeida Theatre


Nel 2018 la maledizione del dramma scozzese si abbatté sulla città di Londra. Tre tra i maggiori teatri e compagnie teatrali del Paese – il National Theatre, il Globe Theatre e la Royal Shakespeare Company – portarono in scena tre diversi allestimenti della tragedia nel giro di poche settimane ed ognuno dei tre fu stroncato da critica e spettatori. A distanza di oltre tre anni è ancora difficile parlarne: sembrava quasi che le tre compagnie si fossero sfidate per stabile chi potesse mettere in scena la peggior rappresentazione dell'opera. I tre revival furono talmente brutti che sarebbe difficile decretare un vincitore, anche se lo sconfitto fu sicuramente il pubblico. Dopo alcuni anni e una pandemia, Londra è finalmente pronta ad accogliere il ritorno di Macbeth nei propri teatri, in un allestimento di alto profilo che segna il debutto sulle scene londinesi di Saoirse Ronan, l'attrice irlandese candidata quattro volte al Premio Oscar.

Questa produzione, che ha avuto la sua prima stasera all'Almeida Theatre, è da alcune settimane al centro di un fitto chiacchiericcio tra gli aficionados: l'esordio di una grande star di Hollywood a teatro è sempre un evento, ma a far discutere sono state le affermazioni della regista Yaël Farber sulla sua visione femminista dell'opera, nonché la durata stessa della rappresentazione, che dura oltre tre ore. Macbeth è celebre, tra le altre motivazioni, per essere la più breve delle tragedie shakespeariane e una messa in scena che supera i centottanta minuti è decisamente insolita per l'opera. La Farber ha, in generale, la brutta abitudine di allungare drasticamente i tempi scenici con una serie di trucchetti che colpiscono la prima volta che si guarda un suo allestimento, ma che al terzo o al quarto rodeo altro non sembrano che espedienti ripetitivi e poco profondi. Aver descritto il proprio stampo sull'opera come "femminista" ha fatto drizzare le orecchie a più di uno spettatore: e questo non per spirito conservatore, ma perché tra tutte le eroine shakespeariane Lady Macbeth è quella che ha meno bisogno di essere emancipata. Chiunque abbia una certa familiarità con la tragedia sa bene che è lei a portate i pantaloni il kilt all'interno della coppia. 

James McArdle e Saoirse Ronan nei panni dei Macbeth

In realtà la regia della Farber non porta i protagonisti in territori inesplorati e le dinamiche di coppia dei Macbeth non sono diverse da quelle che vengono portate in scena solitamente: Lady M spinge il marito al regicidio e ne raccoglie i pezzi quando l'uomo crolla dopo il delitto, per poi invertire i ruoli e assumere la posizione dominante mentre la moglie scivola nel senso di colpa e nella pazzia. L'intera messa in scena della regista, del resto, non è bizzarra o estrema quanto si sarebbe potuto immaginare (o temere) e il risultato finale è un solido Macbeth che regala bei tableau e forti emozioni. Il primo atto (che termina con l'omicidio di Banquo) fatica a trovare sia un proprio ritmo che un proprio stile, ma nella seconda metà della serata la Farber riaggiusta il tiro e presenta un prodotto più coeso e coerente. Certo, alcuni dei suoi tic registici ci sono sempre – la musica dal vivo, una donna che canta, momenti ritualistici (bellissimo il masque delle streghe nel secondo atto), un grande interesse negli elementi naturali (sia il fuoco che l'acqua svolgono un ruolo di rilievo nelle ultime scene) – ma in Macbeth questi sono sia più appropriati che meglio calibrati rispetto ad altre opere dirette in precedenza dalla regista.

Maureen Hibbert, Diane Fletcher e Valerie Lilley sono le Wyrd Sisters

Il tempo sembra svolgere un ruolo di primo piano nella produzione dell'Almeida: da quando una delle tre streghe – le ottime Diane Fletcher, Maureen Hibbert e Valerie Lilley – rivela l'orologio che sovrasta il palco, il tempo dell'azione e il tempo interiore in cui si muovono i personaggi sembra mutare e dilatarsi. Una settimana fa abbiamo sentito Cush Jumbo dire che "the time is out of joint" in Amleto (un'altra tragedia molto interessata alla soggettività del trascorrere del tempo) e anche qui potremmo dire qualcosa di simile. Macbeth ferma il tempo, distrugge il tempo, si colloca fuori dal tempo quando uccide re Duncan (un debole William Gaunt) ed esso torna a scorrere regolarmente solo dopo l'uccisione del regicida: "the time is free", annuncia Macduff (il bravo Emun Elliott) sopra il cadavere di Macbeth. "Domani, e domani e domani striscia a piccoli passi, di giorno in giorno, fino all'ultima sillaba del tempo prescritto" dice Macbeth nel suo ultimo, celebre soliloquio e forse più che in ogni altro allestimento recente di Macbeth è proprio il concetto del tempo su cui la regia ci fa riflettere. Le streghe dal sapore beckettiano concludono la tragedia così come la iniziano, mostrandoci come il ciclo degli orrori e delle vicende è pronto a riniziare con un nuovo protagonista, in un carosello tanto infinito quanto sanguinario.

"My hands are of your colour; but I shame to wear a heart so white"

Un altro aspetto su cui Farber sposta discretamente i riflettori è il fatto che i Macbeth non abbiano figli. Il testo shakespeariano così come ci è stato tramandato presenta sottili discrepanze: Lady Macbeth afferma di sapere cosa si prova ad allattare un bimbo (I.7.54-5), Macbeth si lamenta di essere un re senza dinastia e compiange la sua "fruitless crown" e il "barren sceptre" (III.1.62-3), mentre Macduff, a cui i figli vengono uccisi proprio dall'eponimo protagonista, grida esasperato che il tiranno "has no children" (IV.3.217). Non è chiaro se la coppia ha avuto e perso figli o non ne ha avuti proprio, ma la regia della Farber evidenzia con un certo tatto questa mancanza: Lady M schiocca baci sulle fronti dei figli di Macduff, mentre Macbeth (James McArdle) è spesso affettuoso e paterno nei confronti di Fleance, il figlio di Banquo. Ed è forse questo interesse alla mancata genitorialità che spiega l'unico cambiamento di rilievo apportato dalla regista alla tragedia: quando Macbeth dà ordine di uccidere Lady Macduff (una splendida Akiya Henry), Lady Macbeth si precipita da lei per cercare di salvare la donna e i figli. Per quanto questa decisione non sia necessariamente coerentissima con la psicologia del personaggio, all'interno di questo allestimento è una scelta che funziona. In questo slancio dettato da solidarietà femminile o istinto materno, Lady Macbeth porta avanti questo sottile tema della genitorialità mancata e aggiunge un'altra, interessante dimensione alle scene finali. Il sangue che Lady Macbeth non riesce a lavarsi via dalle mani nella celebre sleepwalking scene non è quello delle persone che ha fatto uccidere, ma di quelle che non è riuscita a salvare.

"Out damned spot": Saoirse Ronan nella scena della pazzia

La tanto attesa Saoirse Ronan è una brava Lady Macbeth. Più una first lady che una regina, la Lady M della Ronan dà il meglio di sé nella seconda parte della tragedia: se è vero che nelle prime scene non risulta feroce quanto potrebbe, è dopo l'omicidio di Duncan che mostra tutta la sua spietata freddezza. L'attrice brilla quando interpreta una lady M intenta ad incantare i propri ospiti, come al banchetto dopo l'incoronazione, in cui mostra il suo talento non solo come affabile padrona di casa, ma anche come un'astuta politica capace di rimediare rapidamente agli errori (o deliri) del marito. Ottima è la chimica con James McArdle (già suo marito nel film Ammonite): i Macbeth sono una coppia unita e piena di passione e nello sgretolamento del loro rapporto dopo gli omicidi vediamo il vero fulcro della loro rovina. Come la Ronan, anche McCardle alterna momenti di grande emotività ad altri di crudele pragmatismo e il suo è un Macbeth intrappolato in un gioco più grande di lui, ma di cui finisce per imparare le regole diventando non solo un complice, ma l'artefice di nuove nefandezze. È tuttavia nel rimorso che l'interpretazione di McArdle raggiunge il massimo e l'attore non è mai intenso e toccante come quando seduto sul bordo del letto sussurra con voce incrinata "I am in blood".

"Sleep no more": James McCardle è Macbeth

Se la prova d'attore dei due protagonisti non raggiunge mai i livelli di introspezione che potremmo aspettarci da artisti del loro calibro, la colpa non è la loro. Ci sono allestimenti di Macbeth in cui i due protagonisti sono l'intera opera e il successo o il fallimento della messa in scena pesa unicamente sulle loro spalle – sto pensando ad esempio al celebre Macbeth diretto da Trevor Nunn nel 1976, in cui Ian McKellen e Judi Dench regalavano una terrificante discesa nella corruzione dell'animo umano su un palco virtualmente deserto. Il Macbeth che potrete vedere all'Almeida è teatro d'auteur, in cui le scelte estetiche e registiche della Farber rimangono sempre in primo piano. In questo caso i Macbeth sono sicuramente importanti, ma dei tasselli di un mosaico più grande invece che dei pilastri portanti. Nonostante la durata insolita, questo è un Macbeth che favorisce l'azione allo scavo psicologico e scene di grande impatto visivo al lacerante e sottile smembramento di un'anima corrotta. Il risultato finale funziona, avvince e cancella i brutti ricordi che il pubblico londinese si porta dietro da ormai tre anni. Resta comunque un po' un peccato che con attori del genere non si raggiungano mai le vette (o gli abissi) emotivi e psicologici che Macbeth si presta bene ad esplorare.

In breve. Saoirse Ronan fa un bel debutto sulle scene britanniche in un Macbeth intenso e avvincente che lascia poco spazio agli attori.

★★★½

martedì 12 ottobre 2021

Romeo e Giulietta al Globe Theatre


A quasi quattrocentotrent'anni dal suo debutto, Romeo e Giulietta rimane una delle opere più rappresentate, riadattate e influenti della storia del teatro. L'anno scorso il Covid ci ha privato di un allestimento al National Theatre con Josh O'Connor e Jessie Buckley (poi diventato un film). Ora è il Globe a ricreare una piccola Verona londinese lungo il Tamigi in un nuovo allestimento firmato da Ola Ince e con Rebekah Murrell ed Alfred Enoch nei panni dei celebri star-crossed lovers.

Questa nuova messa in scena, in cui il testo viene accuratamente tagliato per diventare davvero un "two hours traffic", pone al centro della propria azione una società al collasso. Non stiamo parlando di uno scenario apocalittico, ma un mondo sorprendentemente simile al nostro in cui i servizi e le infrastrutture che dovrebbero occuparsi dei più fragili sono virtualmente assenti. In questa Verona in mano a un principe che è essenzialmente un dittatore, i giovani si trovano completamente allo sbando e senza nessuna figura a cui rivolgersi. Il vero protagonista di questo allestimento, infatti, è il disagio giovanile e non l'amore. Su uno schermo sopra il palco vengono proiettati dati e statistiche ("about 20% of teenagers experience depression before they reach adulthood", “the rational part of the young person’s brain is not really developed until age 25”) che offrono nuovi spunti di lettura dell'opera. Quando Romeo si isola dal mondo a causa del rifiuto di Rosalina, per esempio, possiamo scorgere nel suo stato i sintomi della depressione. O, come ci informa lo schermo, i giovani che non hanno un vero rapporto con un genitore o un tutore sono più inclini a gettarsi in relazioni avventate e tossiche, che è il modo in cui la Ince ci invita a vedere Romeo e Giulietta.

Rebekah Murrell (Giulietta) ed Alfred Enoch (Romeo)
 
Questo infatti è un allestimento della tragedia shakespeariana in cui non c'è spazio per il romanticismo e neppure per l'amore. Noi come pubblico non riusciamo mai a credere che i due adolescenti siano profondamente innamorati – e questo non certo per delle mancanze da parte dei due bravi protagonisti – ma guardiamo a questa relazione malsana come a un sintomo di un grave disagio sociale. Mentre in Mercuzio e Tebaldo (i carismatici Adam Gillen e Will Edgerton) questo disagio si manifesta nella violenza, nell'uso della droga e in atteggiamenti da baby gang, Romeo e Giulietta investono in una relazione folle e avventata tutti i sentimenti che non trovano sfoghi più costruttivi, avvinghiandosi l'uno all'altro con il solo risultato di colare a picco più in fretta. I due non si scambiano mai neanche un bacio in questa messa in scena scarna e priva di poesia.

Rebekah Murrell è Giulietta

Certo, quelle fatte dalla Ince sono scelte drastiche ma – forse sorprendentemente – funzionano. Per quanto spesso la regia sia troppo calcata, il risultato finale colpisce per la sua visione coesa e soddisfacente. Gli amanti adolescenti si aggirano in una Verona in cui non hanno nessuno che li possa o voglia aiutare: il frate Lorenzo di Sargon Yalda è sempre impegnato nel giardinaggio e il suo ritratto del religioso è quello di un pastore che, pur pieno di buone intenzioni, è più interessato al suo orto che al suo gregge. La scena in cui Giulietta scopre del suo fidanzamento con il conte Paride è particolarmente angosciante, perché in essa non vediamo dei genitori che saranno anche tirannici ma sinceramente interessati al benessere della figlia, bensì l'apatia e l'incapacità di occuparsi di lei: quando Lady Capuleti (Beth Cordingly) lascia il palco affermando "Do as thou wilt, for I have done with thee" comprendiamo a fondo la solitudine dei due protagonisti.  

Festa a casa Capuleti

Certo, come direbbe un'altra eroina shakespeariana, non è tutto oro quello che luccica, e l'allestimento è lungi dall'essere perfetto: la Ince potrebbe avere un po' più di fiducia nel suo pubblico ed essere un tantino più sottile nel suo approccio, gli attori spesso faticano a farsi sentire senza il microfono e la scena del ballo a casa di Giulietta è un autentico disastro. Tuttavia, questo rimane un Romeo e Giulietta molto adatto all'epoca del Covid: tra la malattia stessa e i provvedimenti presi per combatterla, i giovani hanno spesso pagato il prezzo più alto e tantissimi adolescenti non hanno potuto socializzare o vivere esperienze formative fuori da Zoom o Skype. Ed è quanto mai sorprendente il fatto che la lettera di frate Lorenzo in cui vengono spiegati i dettagli del piano non arrivi mai a Romeo nel suo esilio a Mantova perché la città è in quarantena a causa della peste. Le conseguenze, come tutti sanno, sono tragiche e vediamo situazioni simili anche noi oggi con l'aumentare dei casi di depressione e addirittura suicidi tra giovani e giovanissimi. L'opera termina con la morte di Romeo e Giulietta: non c'è riappacificazione tra le due famiglie, nessuna statua sarà eretta come monito e memoriale. I Capuleti e i Montecchi non imparano nulla, la società resta indifferente e immutata: speriamo che almeno noi potremo fare meglio.

In breve. Una regia intelligente (anche se non sempre misurata) punta i riflettori sul disagio giovanile in un Romeo e Giulietta che non commuove, ma fa riflettere.

★★★

sabato 9 ottobre 2021

Camp Siegfried all'Old Vic


Un fatto poco noto nella storia degli Stati Uniti è che c'era un gruppo di simpatizzanti nazisti che per tutti gli anni trenta organizzarono un campo estivo per promuovere gli ideali che Hitler diffondeva in Germania. Questo campo estivo a Long Island, chiamato appunto Camp Siegfried, è il soggetto dell'ultima pièce di Bess Wohl, la drammaturga statunitense fresca di candidatura al Tony Award che sta facendo ora il suo esordio sulle scene britanniche.

Un ragazzo (Him) e una ragazza (Her) si incontrano al campo estivo noto come Camp Siegfried: lui è un veterano del posto, mentre per lei è la prima volta. Con la sua esperienza e il suo carisma, il giovane diventa un mentore e un amico della ragazza, poi i due si innamorano e lei resta incinta. Perché è questo l'aspetto più oscuro del campo: non è solo un luogo d'indottrinamento, ma un posto in cui gli americani con sangue tedesco possono accoppiarsi per preservare ed aumentare la germanicità che è in loro. Con il passare dei giorni e lo stato della ragazza, le dinamiche tra i due cambiano, finché all'inizialmente timida giovane non viene chiesto di pronunciare il discorso di fine estate...

I two-hander, le opere teatrali interpretati da solo due attori, sono notoriamente un grande banco di prova per chi le scrive e chi le recita. Con attori inferiori e una drammaturga meno esperta, Camp Siegfried potrebbe essere stato pedante e pesante, soprattutto perché sarebbe facile cadere nella lezioncina di storia o nel moralismo. Fortunatamente questo non è il caso e il dramma regala al pubblico novanta intensi minuti di dialogo serrato, sottile ironia e grande recitazione. Luke Thallon e Patsy Ferran sono ottimi anche se presi singolarmente, ma insieme fanno davvero scintille. La Ferran (Speech & Debate, Come vi piace), in particolare, si è distinta negli ultimi anni come una delle migliori giovani attrici sulle scene londinesi, e con i suoi modi impacciati e l'orgoglio latente la sua Girl è uno dei personaggi più indimenticabili della stagione. La sua trasformazione da brutto anatroccolo ad appassionata oratrice è una grande prova di recitazione ed è almeno dal revival del 2017 de Le zoo di vetro che non vedo niente di simile. Thallon non è da meno: affascina e intriga all'inizio, tocca il cuore nella parte centrale e lo spezza in quella finale, quando combatte per non perdere il potere (e l'amore) che credeva di aver guadagnato.

Patsy Ferran e Luke Thallon

La pièce, elegantemente diretta da Katy Rudd, è una bella esplorazione del fascino che il nazifascismo può esercitare sui giovani con il senso (ghettizzante) di comunità che riesce a creare. Se da una parte è una lezione che è bene ricordare, soprattutto qui in Europa, dall'altre l'autrice non nasconde i richiami trumpiani: il nazismo di Camp Siegfried non è basato su teorie razziali, ma sulla rivendicazione della propria terra, della propria identità politica e il sogno di tornare a una (presunta) epoca d'oro del Paese. Forse qui si avverte un po' il limite dell'opera: i nazisti della Wohl sono troppo MAGA, troppo contemporanei e forse poco nazisti. A parte una rapida allusione, l'antisemitismo non è quasi mai menzionato e il razzismo in generale non ha posto a Camp Siegfried. Non è chiaro se questo rispecchia la realtà degli americani filo-nazisti o se l'autrice ce li ha voluti rendere più digeribili per non alienarsi il pubblico, sta di fatto che in alcuni momenti il loro idealismo/fanatismo politico tocca note un pochino troppo moderne, tanto che non ci stupiremmo di vedere Lui & Lei tirare fuori uno smartphone e twittare dell'account dei giovane repubblicani. 

Scenografie e costumi, semplici e funzionali, sono di Rosanna Vize

Resta comunque splendido il modo in cui la drammaturga costruisce e sviluppa la relazione tra i due protagonisti e il rapporto tra Him ed Her rimane un appassionante e meticoloso studio non solo dei rapporti e dei primi amori, ma dei giochi di potere che si formano nelle coppie. E sì, decisamente a volte la realtà storica si confonde con la contemporaneità, il finale è un po' sbrigativo e, come si sono lamentati alcuni critici londinesi, qualche ripetizione potrebbe essere eliminata. Ma la scrittura vibrante di Bess Wohl e le intense interpretazioni di Thallon e Ferran fanno chiudere un occhio su quasi ogni pecca e se ogni nuova opera teatrale avesse l'ambizione, l'intelligenza e l'urgenza di Camp Siegfried forse vivremmo in un mon(d)o un pochino più consapevole.

In breve. Un fatto poco noto dell'America degli anni trenta diventa una parabola (e un monito) sui pericoli e sul fascino del nazismo.

★★★★

Back to the Future all'Adelphi Theatre


Negli ultimi anni diversi classici per famiglie come Tootsie, Beetlejuice e Mrs. Doubtfire sono stati riadattati per le scene con risultati altalenanti. Ora si aggiunge alla lista anche Ritorno al futuro, il grande successo del 1985 che segue le vicende di Marty McFly, un adolescente che dopo un incidente con una macchina del tempo rimane intrappolato nel 1955. Il teenager, per errore, rovina il primo incontro dei suoi genitori e la sua futura madre si invaghisce di lui: non solo Marty dovrà trovare un modo di tornare negli anni ottanta, ma deve anche far sì che i genitori si innamorino, altrimenti non ci sarà alcun futuro per lui...

Visto il successo da oltre trecento milioni di dollari e i due sequel, era inevitabile che un giorno Ritorno al futuro avrebbe raggiunto anche le scene e il progetto è in cantiere da quasi un decennio. Il compositore Alan Silvestri, già autore della leggendaria colonna sonora del film, ha firmato un'altra ventina di brani musicali, mentre Robert Zemeckis e Bob Gale hanno curato l'adattamento della loro stessa sceneggiatura. Potendo contare su un titolo di grande richiamo, diciamo che i tre autori hanno fatto il minimo indispensabile: le canzoni di Silvestri sono piacevoli ma poco memorabili, portano avanti la trama e fanno poco altro; il libretto di Zemeckis e Gale apporta pochissime modifiche alla loro sceneggiatura, ma del resto perché dovrebbero? Il pubblico aspetta e anticipa le battute più celebri (Ronald Reagan?! L'attore?!) e va bene così. Anche se bisogna ammettere che includere nel musical le canzoni "Earth Angel", "Johnny B. Goode" e "The Power of Love" è stato un po' un autogol, dato che fanno davvero sfigurare i pezzi scritti appositamente per lo show.

Olly Dobson (Marty), Roger Bart (Doc) e la mitica DeLorean

Il musical conta sull'affetto e la simpatia degli spettatori per funzionare e fa presa sul suo pubblico composto da famiglie e da fan del film originale: si applaude l'ingresso degli amati personaggi (più che degli attori), il primo bacio, quando il bullo Biff si prende un pugno in faccia e, soprattutto, la DeLorean, la vera protagonista della serata. Lo scenografo Tim Hatley e il video designer Finn Ross hanno collaborato per creare effetti speciali sorprendenti e non c'è da sorprendersi se la macchina diventa la star dello spettacolo. La regia di John Rando, come il libretto e la colonna sonora, è divertente, semplice e poco originale; Rando favorisce lo scorrere dell'azione grazie anche all'ottima scenografia di Hatley e le simpatiche coreografie di Chris Baley.

Olly Dobson (Marty) e Hugh Coles (la versione adolescente del padre George McFly)


Il cast è bravo e spigliato, ma la produzione dà loro poco spazio di manovra dato che quello che ci si aspetta dagli attori è ricreare al meglio le performance del film. Olly Dobson nel ruolo di Marty è un ottimo cantante e un protagonista avvincente, particolarmente bravo nelle scene in cui cerca di convincere la versione adolescente del padre a trovare il coraggio di chiedere alla futura moglie di uscire. Questo anche grazie all'ottimo Hugh Coles che, pur imitando al 100% Crispin Glover del film, regala i momenti più divertenti della serata e ci regala una bella interpretazione nel ruolo di un ragazzo tanto maldestro quanto adorabile. Il veterano di Broadway Roger Bart è Doc, lo strampalato scienziato che trasforma la DeLoren in una macchina del tempo. Bart è uno dei più celebri attori comici a Broadway ma, anche se il suo carisma è innegabile, il materiale che gli è stato dato da cantare non è dei migliori. In compenso durante le sue scene è l'unico che si allontana dalle interpretazioni del film e riesce quasi a far dimenticare lo straordinario Christopher Lloyd. Molto brava anche Rosanna Hyland nel ruolo di Lorraine Baines-McFly, la futura madre di Marty: non solo i suoi tempi comici sono impeccabili, ma alla sua bella voce viene affidata l'unica canzone originale degna di nota, "Something About That Boy". 


Roger Bart è Emmett "Doc" Brown

La verità è che è inutile mettersi a sindacare sui limiti dello spettacolo, dato che ottiene esattamente il risultato sperato: intrattenere gli amanti del film presentandolo in una veste abbastanza nuova da giustificare l'esistenza dello show, ma non fino al punto da sorprendere. Back to the Future punta sulla simpatia e la nostalgia per funzionare e non fallisce. Tra il pubblico spiccano felpe dell'Hill Valley High School e l'intero foyer è stato trasformato in un centro commerciale degli anni cinquanta. La platea e le pareti della sala sono coperte da marchingegni e strumenti elettronici, così che il pubblico è completamente immerso nella fantasia propostaci dallo show. Se il risultato finale è più simile a un'attrazione di Disneyland che a un musical vero e proprio poco importa, anche se non posso fare a meno di chiedermi se la standing ovation finale fosse solo per lo show o anche per tutti i ricordi e l'affetto che nutriamo per il film.

In breve. Senza infamia e senza lode, questo adattamento musicale di Ritorno al futuro colpisce per la grande energia del cast e una macchina davvero speciale. 

★★★

giovedì 7 ottobre 2021

Amleto al Young Vic

Dal 1741, quando Fanny Furnival lo interpretò per la prima volta a Dublino, il ruolo di Amleto ha attratto non solo grandi attori, ma anche grandi attrici. Dalla divina Sarah Bernhardt a Ruth Negga, il Principe di Danimarca non è appannaggio escusivamente maschile da quasi tre secoli, con buona pace di Repubblica che ha visto nell'Amleto femminile di Antonio Latella una "provocazione". Ora a reggere l'oneroso teschio di Yorick ci pensa la trentaseienne Cush Jumbo, protagonista della serie The Good Fight e assente dalle scene britanniche da quasi un decennio.

Con il suo fisico androgino, la testa rasata e gli abiti maschili, l'Amleto della Jumbo ha un che di adolescenziale e per una rara volta possiamo vedere un principe di Danimarca che è – o almeno sembra – veramente giovane. Questo ringiovanimento del protagonista non è casuale (una battuta da cui si potrebbe evincere la vera età del protagonista è stata eliminata) ed è una delle scelte volute dal regista Greg Hersov per rifocalizzare l'intera vicenda esclusivamente intorno alla famiglia. O, per dirla tutta, alle famiglie, dato che ai reali danesi si affianca prepotentemente anche la famiglia composta da Pollonio e dai figli Laerte e Ofelia. 

Cush Jumbo (Amleto), Tara Fitzgerald (Gertrude) e Jonathan Ajavi (Laerte)

Per molti aspetti l'allestimento diretto da Hersov non offre nulla di particolarmente originale, anche se i massicci tagli al testo e la carismatica interpretazione di Cush Jumba trasformano la tragedia per eccellenza in tre ore di serrata azione e tensione. La pazzia di Amleto non è simulata (tagliata è la battuta sull'antic disposition), ma un profondo lutto che attanaglia il giovane principe e riemerge come tic misurati. L'energico Amleto di Jumbo è un affabulatore estroverso e apparentemente socievole, capace di interagire con fascino e intelligenza non solo con i suoi veri alleati (come Orazio), ma anche con tutte le persone che lo vogliono solo spiare (Polonio, Rosencrantz e Guildenstern). Più a suo agio nei dialoghi che nei soliloqui, l'Amleto della Jumbo colpisce per la sua "normalità", per essere un giovane uomo qualunque che si ritrova in una situazione strana e straziante: non è un eroe romantico, decadente o post-psicoanalitico, ma una persona energica e vitale che si trova intrappolata in un incubo. È questa normalità, questo essere vittima degli eventi a renderlo così vicino ad Ofelia, un personaggio la cui pazzia è – come per Amleto – causata sia dal grande lutto che dall'essere diventata uno strumento in mano a poteri più forti. E Norah Lopez Holden è un'ottima Ofelia, così come ottimi sono anche il Laerte di Jonathan Ajayi e, soprattutto, il Polonio di Joseph Marcell, che interpreta un personaggio estremamente pedante senza diventarlo egli stesso.


Alla famiglia perfettamente riuscita di Polonio si contrappongono i reali danesi, una coppia più acerba e interpretata debolmente da Tara Fitzgerald ed Adrian Dunbar. Forse è proprio Dunbar l'anello debole del cast e il suo Claudio manca di spessore: si riprende un po' nelle ultime scene in cui può interpretare un politico machiavellico, ma assente è il turbamento causato dalla sua stessa mancanza di rimorso. L'attore interpreta anche il Fantasma e qui Hersov fatica a delinearne la figura in modo soddisfacente: il vecchio Re Amleto compare in scena solo una volta, ma forse funziona meglio quando si limita a manifestarsi tramite proiezioni nebulose sullo sfondo. Brilla nei ruoli minori dell'attore e del(l'unico) becchino Leo Wringer, che con gli occhi spiritati e l'umorismo sottile rende la sua scena con Amleto nel cimitero uno dei momenti meglio riusciti della serata.

Norah Lopez Holden (Ofelia) e Cush Jumbo (Amleto)

Non tutto brilla nell'Amleto di Hersov: i tagli rendono molto scorrevole l'azione, ma sminuiscono un po' lo spessore dell'opera e senza l'arrivo di Fortinbras il finale è troppo brusco e affrettato. Anche la scena dell'omicidio di Polonio che conclude il primo atto è stranamente impacciata: il ciambellano viene pugnalato fuori scena e l'intervallo interrompe la "closet scene" spezzando così un ritmo che impiega un po' di tempo a recuperare nel secondo atto. Lo stesso problema avviene all'inizio: l'allestimento fatica a carburare e non trova davvero il suo centro fino al primo dialogo tra Amleto e Polonio, a cui segue l'incontro tra il principe e gli esilaranti Rosencrantz e Guildenstern di Joana Borja e Taz Skylar. A incorniciare la messa in scena, tesa e ricca di azione, ci pensa la bella scenografia di Anna Fleischle (Hangmen) che, pur non venendo sfruttata al massimo, mostra il marcio della Danimarca con i suoi specchi ossidati e le pareti che trasudano umidità.

In breve. Il carismatico Amleto di Cush Jumbo è la star di un lucido allestimento che, pur non raggiungendo mai grossi picchi emotivi, non annoia né delude.

★★★½