lunedì 18 febbraio 2019

Edward II alla Sam Wanamaker Playhouse


Scritta un anno prima della sua morte nel 1593, la tragedia di Christopher Marlowe sullo sfortunato Edoardo II d'Inghilterra è da molti considerato il suo capolavoro. Appena incoronato re, Edoardo richiama il suo favorito Gaveston dall'esilio, scatenando la gelosia della moglie Isabella e l'ira degli aristocratici: il sovrano infatti favorisce Gaveston a loro, arricchendolo con fondi e titoli che spetterebbero alla nobiltà o alla chiesa. La faziosità tra il re ed i suoi nobili si trasforma in una guerra civile guidata da Mortimer ed Isabella, la cui sete di vendetta non si esaurisce con l'uccisione di Gaveston. Sconfitto ed incarcerato, Edoardo viene costretto ad abdicare in favore del figlio, Edoardo III, per poi essere giustiziato crudelmente per oridere di Mortimer. Spetterà al giovane re riportare l'ordine nel regno e assicurare la madre e Mortimer alla giustizia.


Il Globe è sicuramente noto per i suoi allestimenti estivi all'aperto nella tradizione elisabettiana del sedicesimo secolo, ma non tutti sanno che il teatro del Southbank ha anche una sala più piccola e al coperto, una meravigliosa ricostruzione di una playhouse giacobita illuminata solo da candele. Ed è proprio la Sam Wanamaker Playhouse ad ospitare questo elegante revival della tragedia, diretta con grazia ma con poche sfumature da Nick Bagnall. Il regista riesce sicuramente a bilanciare il forte aspetto omoerotico delle prime scene con la natura intensamente politca della tragedia, anche se la sua produzione sembra soffermarsi più sull'aspetto estetico che sulla dimensione interiore dei personaggi: il risultato finale è godibile ma poco incisivo. Con l'eccezione degli ottimi Tom Stuart nella parte del protagonista e Colin Ryan nel duplice ruolo del giovane Spencer e di Edoardo III, il resto del cast è più declamatorio che introspettivo. L'arrogantissimo Gaveston di Beru Tessema ci fa provare sicuramente molta simpatia la regina oltraggiata di Katie West, che però non convince nel ruolo della sovrana guerriera del secondo atto.

Tom Stuart

Il revival ha la pecca di evidenziare invece che tentare di risolvere i difetti del testo: la nota incapacità di Marlowe nello scrivere personaggi femminili si incarna in Isabella, che passa da vittima a principessa guerriera con una misteriosa inversione a u. Certo, sarebbe più facile comprenderla se credessimo che è stata travolta dall'amore per Mortimer, ma in questa versione lo spettatore non vede mai la passione tra i due. Il secondo atto è più intenso e viscerale, la qualità delle interpretazioni migliora e Tom Stuart in particolare è decisamente commovente nella scena dell'abdicazione, qui messa in scea in modo tale da creare interessanti parallelismi con il Riccardo II di Shakespeare. Bill Barclay ha composto la colonna sonora che, eseguita dall'orchestrina rinascimentale dal vivo, aiuta a creare con garbo l'atmosfera. Anche se l'allestimento è a tratti insoddisfacente, Edward II alla Sam Wanamaker Playhouse rimane una bella produzione, scorrevole ed esteticamente curata, che fa rivere la tragedia di Marlowe con buon gusto e sentimento.

In breve. L'affascinante atmosfera della Sam Wanamaker Playhouse riesce a nascondere il grosso delle pecche di un revival non sempre incisivo, ma sicuramente elegante.

★★★½

lunedì 11 febbraio 2019

Chita Rivera alla Cadogan Hall


Insieme ad Angela Lansbury, Chita Rivera rimane l'ultima leggenda della golden age di Broadway e, al contrario della più celebre "Signora in giallo", tutta la sua carriera è stata dedicata esclusivamente al teatro. Una carriera straordinaria che abbraccia sette decenni e che l'ha vista apprezzattissima interprete delle opere teatrali di Brech e Lorca, ma soprattutto dei musical di Kander & Ebb e delle coreografie di Bob Fosse. Chita infatti è quella che in gergo viene chiamata un "triple threat", un'artista che sa ballare, recitare e cantare alla perfezione. La sua lunga attività teatrale è stata costellata di onori e risconoscimenti tra cui i Kennedy Center Honors, la medaglia presidenziale per la libertà, dieci candidature ai Tony Award, di cui due vinti nel 1984 e nel 1993 a cui si è aggiunto un terzo Tony onorario alla carriera l'anno scorso. Il primo grande successo arrivò nel 1957 con la produzione originale del leggendario West Side Story, in cui la sua performance nel ruolo minore di Anita la trasformò in una star. Le decadi successive la videro protagonista di altri grandi musical che misero in mostra la sua versatilità e il suo talento nella danza, tra cui Sweet Charity e l'indimenticabile produzione originale di Broadway di Chicago, che la vide interpretare Velma Kelly (il ruolo di Catherine Zeta-Jones nel film) accanto alla Roxie di Gwen Verdon.

Chicago segnò la prima di una lunga e fruttuosa collaborazione con il compositore John Kander ed il librettista Fred Ebb (già autori di Cabaret), il cui musical The Rink la portò a vincere il Tony Award alla migliore attrice protagonista nel 1984 per la sua interpretazione accanto a Liza Minnelli. Ancora a Kender & Ebb si lega forse il ruolo più celebre, quello della fatale "donna ragno" nel musical tratto dal romanzo di Manuel Puig Il bacio della Donna Ragno. Diretta dal grande Harold Prince, Chita Rivera interpretò il personaggio eponimo a Toronto, Londra e Broadway, dove vinse il suo secondo Tony Award. All'età di settant'anni tornò a Broadway per danzare il tango con Antonio Banderas in Nine, il musical tratto dal capolavoro di Fellini , mentre a 82 fu un'indimendicabile Claire Zachanassian in The Visit e a 85 fece il suo debutto alla Carnegie Hall. Oltre venticinque anni dopo la sua ultima apparizione sulle scene londinesi in Kiss of the Spider Woman, Chita Rivera ha fatto un trionfale ritorno nella capitale del teatro europeo con due concerti in scena alla Cadogan Hall, la celebre sala da concerto nel cuore di Chelsea.

Chita Rivera a Broadway in West Side Story (1957) e The Visit (2015)

E non c'è che dire, vedere Chita Rivera in concerto è davvero una grande emozione, perché a dispetto dell'età riesce ancora a ballare, cantare e intrattenere come artisti con la metà dei suo anni pregherebbero per saper fare. E credetemi, se riuscite a strappare al notoriamente rigido pubblico londinese cinque standing ovation e quattro chiamate alla ribalta, allora siete bravi davvero. Da numeri più energici come "Carousel" ad altri più intimi come "I Don't Remember You", Chita tiene in pugno il pubblico dal momento in cui entra in scena con un medley di Chicago e Kiss of the Spider Woman e basta vederla anche solo accennare i movimenti dei suoi numeri più celebri per ritrovare la grandissima ballerina che è stata. Peccato per alcuni problemi tecnici con l'acustica della sala, l'orchestra troppo forte e un batterista un po' troppo esuberante, una serie di fattori che a volte rendevano difficile sentire l'attrice. Cadogan Hall è notoria per questo, l'acustica della sala l'ha resa perfetta per la musica sinfonica e da camera, un po' meno per recital basati sulla voce.

Chita Rivera in concerto nel 2017

Tantissimi momenti indimenticabili, nel primo atto con "Where Am I Going Now" da Sweet Charity - in cui nel 1969 rimpiazzò Gwen Verdon nel tour statunitense - e soprattutto nel secondo, quando si è tolta sessant'anni dalla spalle per danzare e cantare sulle note di "America", il suo cavallo di battaglia dai tempi di West Side Story. E il grande finale con "All That Jazz" chiude la serata in bellezza e corona un concerto e una carriera segnata dai trionfi e dall'incondizionato amore del suo pubblico. Due settimane dopo il suo ottantaseiesimo compleanno, Chita Rivera ci ricorda ancora di che stoffa sono fatte le grandi star del musical e lascia sperare che torni presti a recitare a teatro.

In breve. Neanche un'acustica problematica riesce a rovinare il trionfale ritorno a Londra di una delle più grandi star di Broadway.

★★★★½

giovedì 31 gennaio 2019

When We Have Sufficiently Tortured Each Other al National Theatre


Quando il due volte Premio Oscar Cate Blanchett si era ritirata dall'adattamento teatrale di Eva contro Eva la delusione è stata palpabile tra i theatre-goers londinesi, anche se Gillian Anderson sarà sicuramente una più che degna sostituta. Al posto di mettersi nei panni di Bette Davis, l'attrice australiana ha deciso di recitare nell'ultima fatica teatrale di Martin Crimp, noto esponente del teatro postmoderno. Come suggerisce il titolo, When We Have Sufficiently Tortured Each Other: Twelve Variations on Samuel Richardson's "Pamela", la pièce offre variazioni sul romanzo di Richardson Pamela, o la virtù premiata: come di consueto per Crimp, il suo dramma non ha una trama lineare, né personaggi chiaramente identificabili. Nelle sue due ore senza intervallo i due protagonisti si scambiano continuamente i ruoli nel parlare di sesso, della tensione tra serva e padrone, del sadomasochismo e della violenza implicita nella sessualità.

Se un tempo Crimp aveva raggiunti alti livelli di drammaturgia e innovazione, come nel suo indimenticabile Attempts on Her Life, nell'ultimo decennio il suo lavoro ha mostrato segni di stanchezza, al punto da riepigare su facili argomenti di scandalo come la pedofilia per attirare attenzione sui suoi drammi. Così anche in When We Have Sufficiently Tortured Each Other, una pièce che riesce ad essere evocativa ed incredibilmente pedestre allo stesso tempo. Nonostante il teatro abbia in giro voci di svenimenti durante le prime repliche per la violenza sulla scena, le recensioni ottenute dall'opera di Crimp sono state talmente deludenti da trasformare l'evento sold out della stagione in un mezzo flop: inizialmente il teatro aveva deciso di vendere i biglietti solo tramite un ballottaggio a causa della grande richiesta di pubblico, ma ora raramente registra il tutto esaurito e dozzine di biglietti ad ogni replica sono stati restituiti da spettatori accorti. E in effetti dopo aver visto la pièce non mi sento affatto di biasimarli e mi chiedo anzi se i presunti svenimenti non fossero altro che poveri spettatori addormentatisi per la noia.

Jessica Gunning, Cate Blanchett e Stephen Dillane


Per carità, a tratti il testo è anche abbastanza divertente, ma lo scopo del dramma è esplicato con talmente poca sottigliezza che il messaggio viene recepito chiaramente dopo la prima delle dodici variazioni sul tema, costringendo lo spettatore a una lunga, lunga serata ripetitiva. Se le opere di Crimp hanno lo stampo dell'enfant prodige sfiorito in fretta, la regista Katie Mitchell si è affermata come una delle artiste più divisive sulla scena teatrale inglese e le sue regie per la Royal Opera House ed il National Theatre hanno sempre ottenuto sia plausi che critiche asprissime. Qua è difficile dire se il problema sia anche di regia o se è proprio il testo ad essere irrecuperabile, ma sicuramente la Mitchell non è riuscita a dargli linfa ed il risultato finale è estremamente pedissequo e poco creativo. 

A salvare il pubblico dal suicidio ci pensa il cast, capitanato da Cate Blanchett e Stephen Dillane (Stannis di Trono di Spade). Il loro compito è veramente titanico e anche se non riescono mai a salvare la pièce dallo sfacelo in cui versa, possono almeno illuminare o rendere interessante qualche scena con le loro performance. L'assenza di personaggi veri e propri sicuramente non è d'aiuto per un attore, ma la Blanchett riesce ad essere indimenticabile con ogni movimento, ogni espressione e ogni frase pronunciata con quella sua voce così profonda e calda. Uno dei suoi momenti migliori è quando racconta a Jessica Gunning - bravissima, per niente inferiore ai due giganti con cui divide il palco - un sogno della notte precedente mentre la domestica le fa indossare l'abito da sposa: nei passaggi dai toni sognanti del ricordo a quelli più bruschi in cui intima alla serva di fare più attenzione Cate Blanchett mostra un pizzico del suo genio al pubblico, ma mostra anche quanto sia sprecata in When We Have Sufficiently Tortured Each Other. Altrettanto bravo Dillane, suo compagno in ogni scena, che riesce a infondere un po' di umanità a un personaggio poco sviluppato e ancora meno apprezzabile. Ma se la chimica tra i due attori riesce a rendere vagamente sopportabili le due ore - l'intervallo è stato probabilmente tagliato per evitare la fuga del pubblico - di certo non riesce a salvare lo spettatore da una serata lunghissima, monotona, pretenziosa e decisamente poco riuscita.

In breve. Neanche il piacere di vedere due grandi attori all'opera nasconde i difetti di un dramma davvero da dimenticare.

★½

domenica 27 gennaio 2019

Outlying Islands al King's Head Theatre


Lo storico teatro e pub di Islington ha messo in scena un raro revival di Outlying Islands di David Greig, la pièce debuttata ad Edimburgo nel 2002 con il giovane Sam Heughan di Outlander nel cast. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, i giovani ornitologi John e Robert vengono inviati dall'Università di Cambridge a studiare la popolazione di uccelli che vivono in una sperduta isola scozzese. Qui i due vivono in completa solitudine, se non per il vecchio proprietario dell'isola, Mr. Kirk, e la sua timida nipote Ellen. Il lucido Robert cede al fascino del posto e si sente sempre più attratto dalla natura e dal desiderio di unirsi ad essa, mentre il più prudente John cerca di mantenere una parvenza di civiltà anche in quell'avamposto desolato. Ma quando il vecchio Kirk muore in circostanze sospette, la tensione sessuale tra i due giovani ed Ellen cresce fino a portare i tre personaggi oltre il punto di non ritorno.

Nel suo dramma Greig pone domande interessanti sulla nostra responsabilità nei confronti della natura, sull'ipocrisia della nostra società, sul perbenismo che usiamo per nascondere i nostri impulsi più gretti e meschini. Tutto ciò sarebbe incredibilmente eccitante per un'opera scritta agli inizi del novecento, ma un dramma vecchio di quindi anni non dice niente che altri scrittori non abbiano detto prima e meglio. Outlying Islands è come un Signore delle mosche con protagonisti un po' più cresciuti, un tentativo di celebrare in modo quasi bacchico e orgiastico la natura e la nostra unione ad essa, un'unione con radici più profonde che quelle con la società borghese. Ma tutte le grandi domandi che la pièce ci lascia vengono solo accennate, quasi timidamente, ed è difficile dire quale sia l'intenzione dietro a tutto questo. La morte di Kirk, di cui Robert è parzialmente - o in grosso modo - responsabile, non sembra lasciare un profondo turbamento nei personaggi, come ci aspetteremmo che un fatto così grave facesse. E così anche per tante altre situazioni e temi: vengono momentaneamente sollevati e poi accatastati in un angolo, senza sapere cosa farci.

Jack McMillan (John) e Tom Machell (Robert)

Forse una regia più ispirata o un cast più travolgente potrebbe far sorvolare, se non risolvere, i limiti del testo, ma sfortunatamente questo non è il caso. La regista Jessica Lazar si limita a servire il testo con poche direzioni o coinvolgimento, anche se almeno le va il merito di aver saputo usare molto astutamente il limitatissimo spazio scenico del King's Head Theatre, questo anche greazie alla scenografia semplice e funzionale di Anna Lewis. Nel ruolo dell'anima nera del dramma, il disperatamente cinico e pragmatico Robert, troviamo un Tom Machell piuttosto blando e per niente carismatico. Nessuna sorpresa che non riesca a portare John al lato oscuro, con i suoi occhi spiritati e manierismi sembra ispirarsi più a Sheldon Cooper che un uomo innamorato del sublime che l'isola suggerisce con i suoi aspetti meravigliosi e terribili. Decisamente migliore Jack McMillan, che mette a nudo la crescita, i dubbi e l'indecisione del suo John. Il suo flirt con gli istinti più inconfessabili viene vissuto con vergogna e negazione, aspetti che McMillan incarna alla perfezione. Peccato che i due protagonisti stiano spesso in scena insieme da soli e la mancanza di chimica tra i due non giova  alla produzione.

Rose Wardlaw (Ellen) e Ken Drury (Mr Kirk)

Rose Wardlaw è sicuramente il fiore all'occhiello della produzione e la sua Ellen, una ragazza timida ed innamorata del cinema, che trova finalmente modo di crescere dopo la morte del tirannico zio, sboccia davanti al pubblico durante il secondo atto, trasformandosi da timida ed impacciata a sensuale e tentatrice. Completa il cast Ken Drury, veterano del National Theatre, che nel duplice ruolo di Mr Kirk e del capitano porta uno splendido accento scozzese e una burbera autorevolezza sul palco. Appesantito da dialoghi eccessivamente lirici, il dramma si consuma lentamente e la Lazar spreca anche l'ultima occasione di rendere un po' emozionante il confronto finale tra i tre giovani. E togliendo la tensione, il sesso, la paura e il dramma, ad Outlying Islands rimane soltanto la noia.

In breve. Trascurabile revival di un'opera che forse non meritava una seconda vita.

Swan Lake al Sadler's Wells Theatre


Il classico moderno di Matthew Bourne è tornato per un trionfale mese di repliche al Sadler's Wells Theatre di Londra, il tempio della danza moderna. Qui tutto cominciò nel 1995, quando il pubblico ebbe per la prima volta la possibilità di vedere i cigni maschi danzare i ruoli fino ad allora ricoperti da ballerine con chignon e tutù. Una scelta controversa ma che si rivelò un successo senza precedenti, confermato dalle numerose tournée mondiali del balletto che hanno portato il genio visionario di Sir Matthew in tutti i continenti. Lo Swan Lake di Bourne va a rimaneggiare il classico di Pëtr Il'ič Čajkovskij non solo nel sesso dei ballerini, ma anche nella struttura della (meravigliosa) partitura e della trama. Il principe di Bourne ha un che di amletico e Romantico, un giovane uomo tormentato dagli impegni reali e dall'assenza di affetto materno, allontanato da ogni possibile amore o amicizia dal suo rango e manipolato per intrighi di potere a corte. Sull'orlo del suicidio, il principe vede un cigno nel lago e la sua bellezza, grazia e libertà lo attirano e gli danno speranza. La vita di corte presto negherà all'erede al trono anche questo sogno, portandolo alla pazzia e alla morte: una morte in cui forse potrà trovare la pace e ricongiungersi con quel cigno che gli ha dato per primo l'illusione della libertà.

Il balletto di Bourne viene spesso definito "la versione gay del Lago dei Cigni", una definizione che diverte il coreografo ma che è decisamente riduttiva. Certo, il sensuale pas de deux tra il principe e il cigno nel primo atto ci parla sicuramente di attrazione fisica tra i due, sviluppata ulteriormente nel secondo atto, quando uno straniero con le sembianze del cigno si presenta al ballo a corte, ma l'animale è anche simbolo di quell'aggressività, indipendenza e libertà che il principe brama. Negli ultimi anni c'è stata una certa tendenza nel casting di selezionare il cigno tra ballerini di danza moderna o anche dal musical, ma quando il primo ballerino viene dalla tradizione del balletto classico la differenza si vede, eccome. Matthew Ball, ballerino principlae del Royal Ballet, è meraviglioso nei suoi ruoli del cigno e dello "straniero", ma è soprattutto nel primo che dà il meglio di sé. Con grazia e agilità, porta in scena un cigno ricco di interessanti sfumature drammatiche, che con il corpo muscoloso ma sottile suggerisce una giovinezza simile a quella del principe, ma libera da limiti e responsabilità: al contrario che con cigni più massicci e virili come l'eccellente e compianto Jonathan Ollivier, il principe può davvero vedere nello Swan di Ball un suo doppio. E in quelli che sono tradizionalmente i ruolo di Odette ed Odille, Matthew Ball è davvero indimenticabile.

Matthew Ball nel ruolo del Cigno

Dominic North è un principe particolarmente sofferente e ansioso, che usa le belle linee e l'ottima preparazione tecnica per costruire un personaggio sfaccettato e intenso. I suoi momenti migliori sono nel pas de deux con Ball e nelle scene con la madre, l'ottima Regina di Katrina Lyndon, in cui danza il suo desiderio di affetto con commovente disperazione. Ruba la scena nel ruolo minore della fidanzata una Carrie Willis molto Legally Blonde, che porta il tanto necessario "comic relief" nel primo e nel secondo atto. Le scenografie e i costumi di Lez Brotherston sono ormai diventati iconici, grazie anche alla scene finale di Billy Elliot: sono eleganti e funzionali, aiutano la trama a dipanarsi senza esere troppo intrusivi. Le orchestrazioni di Rowland Lee fanno onore al compositore, così come l'impeccabile direzione musicale di Ben Pope, che conduce l'orchestra (sfortunatamente assente nelle tappe italiane della tournée del 2013) in un rendimento eccellente della più celebre partitura di un balletto. E ovviamente non si piò evitare di rimarcare la bellezza, intelligenza ed originalità della regia e delle coreografie di Matthew Bourne, che hanno saputo reinterpretare un balletto leggendario in un modo che, pur portando rispetto all'originale, crea un risultato unico e bellissimo. Le repliche a Londra sono finite, ma l'allestimento andà in tournée nelle principali città inglesi fino a maggio, non perdetevelo!

In breve. A ventitré anni dal debutto, questo revival ci ricorda la bellezza dell'opera di Matthew Bourne, che ha saputo creare un vero ed indimenticabile classico moderno.

★★★★

Fiddler on the Roof alla Menier Chocolate Factory


Il violinista sul tetto è uno dei grandissimi classici del musical di Broadway, debuttato nel 1964 e reso celebre dall'omonimo film da Oscar con Topol nel ruolo del protagonista. Ora la Menier Chocolate Factory ha messo in scena un nuovo revival per la regia di Trevor Nunn, lo storico collaboratore della Royal Shakespeare Company e del National Theatre, noto soprattutto per aver diretto le celebri produzioni di Cats e Les Misérables.

Ambientato nel piccolo villagio ebraico di Anatevka nella Russia imperiale di inizio secolo, il musical racconta dei tentativi del povero lattaio Tevye di maritare le figlie maggiori Tzeitel, Hodel e Chava. Il vento del cambiamento ha iniziato a soffiare e per il mite Tevye imporre l'autorità patriarcale diventa sempre più difficile e lo scontro tra tradizione ed innovazione lo porterà a un punto di rottura, mentre sull'intera comunità incombe l'ombra dei pogrom sempre più frequenti.

La Menier, un piccolo teatro dell'Off West End a due passi da London Bridge, ha una lunga storia nel produrre eccellenti produzioni che hanno poi goduto un grande successo a Broadway e nel West End, e questo Fiddler è un'ottima aggiunta alla collezione. La produzione di Nunn è molto tradizionale e se da una parte non offre una lettura particolarmente originale o innovativa dell'opera, dall'altra mette particolarmente sotto indagine la vita emotiva dei personaggi ed il conflitto interiore del protagonista. Del resto, come dicono gli inglesi, se non è rotto non aggiustarlo. La scenografia di Robert Jones aiuta il pubblico - disposto su tre lati del palco - ad immergersi pienamente della povera comunità del 1905, creando un'illusione di partecipazione nella storia sicuramente più difficile da ricreare in teatri più grandi. Le luci di Tim Lutknin, "trucco e parrucco" di Richard Mawbey e i costumi meravigliosamente poveri di Jonathan Lipman portano a compimento il grande realismo dell'allestimento, creando un ambiente in cui l'ottimo cast può dare davvero il meglio di sé.

Judy Kuhn (Golde) ed Andy Nyman (Tevye)

Nel ruolo di Tevye Andy Nyman (Hangmen) regala un'interpretazione enormemente commovente che porta in scena un uomo in cui l'amore per le figlie e per la tradizione deve scontrarsi con i cambiamenti di inizio secolo. Quando la prima figlia Tzeitel (una brava Molly Osborne) rifiuta di sposare l'uomo scelto dal padre per lei perché innamorata del povero sarto Motel, Tevye deve riconsiderare le Sacre Scritture, il suo ruolo di padre e una millenaria tradizione di matrimoni combinati all'interno della comunità ebraica, prima di decidere di fare la felicità della figlia dandole il permesso di sposare chi vuole. Una scelta non facile, soprattutto in un mondo in cui l'esistenza del suo popolo è costantemente minacciata e solo l'aggraparsi alle tradizioni può dare loro una parvenza di stabilità: del resto, come ricorda il titolo, senza le tradizioni la vita sarebbe instabile com un violinista su un tetto. La magnanimità del pater familias viene ulteriormente messa alla prova dalla secondogenita Hodel, che non chiede neanche il suo permesso, ma solo la sua benedizione per sposare il rivoluzionario Perchik, un eccellente Stewart Clarke. Dopo aver fatto anche questa eccezione alla regola, Tevye sente di non potersi spingere oltre e quando la figlia Chava fugge di casa, si fa battezzare e sposa il soldato cristiano Fyedka la disconosce. La sofferenza che Nyman porta in scena in questo gesto drastico e definitivo è devastante ed il pubblico si trova a piangere con il suo Tevye per il dolore della scelta. La vasta gamma emotiva che l'attore dà al suo personaggio crea un protagonista burbero e pragmatico, comico e profondamente, profondamente umano. E quando Nyman canta la canzone più celebre del musical, "If I Were a Rich Man", trasformando il ritornello in una sorta di lamento per la sciatica causata dal duro lavoro, si ha davvero l'impressione di assistere ad un'interpretazione che cambierà ed influenzerà tutti i futuri interpreti del ruolo, come fece Zero Mostel nella produzione originale e Topol nel film, nei tour, a Londra e a New York.

La famiglia riunita per lo Shabbat

Judy Kuhn, veterana di Broadway e voce originale di Pocahontas nel film della Disney, è bravissima nel ruolo della tirannica moglie Golde, la donna che cresce le cinque figlie del lattaio, cura la casa e cerca di organizzare le nozze con l'aiuto della shadcan Yente, la sempre ottima Louise Golde. Uno dei momenti migliori del musical è quando Tevye, curioso per tutto il parlare d'amore delle figlie, chiede alla moglie se è innamorata di lui, una domanda che spiazza Golde. Nell'imbarazzato e titubante duetto "Do You Love Me?" i due realizzano, quasi loro malgrado, che dopo oltre vent'anni e cinque figli i due si sono davvero innamorati. Ottima attrice e impeccabile mezzosoprano, la Kuhn dà il meglio di sé in questo numero in cui porta in scena tutta la riluttanza nell'ammettere i propri sentimenti, mentre la sua voce dimostra di essere ancora in ottima forma nella splendida "Sunrise, Sunset". Del resto, la colonna sonora firmata da Jerry Bock e Sheldon Harnick (She Loves Me) è una delle migliori partiture della storia di Broadway e mischia melodie ebraiche a testi arguti e raffinati per creare un musical emozionate e divertente. Le coreografie di Matt Cole e quelle originali di Jerome Robbins per la scena del matrimonio sono più che all'altezza del resto del cast tecnico e creativo, rendendo il revival davvero perfetto sotto ogni punto di vista. La produzione resterà in scena alla Menier fino a marzo e da aprile sarà portata al Playhouse Theatre del West End: non lasciatevelo sfuggire!

In breve. Un perfetto Andy Nyman guida verso una dimensione più profonda ed emotiva un revival impeccabile sotto ogni aspetto. 

★★★★

sabato 26 gennaio 2019

Notre Dame de Paris al London Coliseum


Io adoro Notre Dame de Paris. Se scrivo, studio e parlo di teatro è colpa sua. Quando avevo sette anni la RAI trasmise in diretta la replica dall'Arena di Verona e per me fu amore a prima vista. Guardavo sempre la registrazione fatta su VHS (ve li ricordate i VHS?), lo disegnavo, per qualche anno fu l'unico CD che ascoltavo. E' grazie a Notre Dame che cominciai a guardare prima altri musical e poi opere teatrali, scoprendo quella che sarebbe diventata una delle mie più grandi passioni. I miei mi avevano portato a vederlo dal vivo del 2004, al PalaSharp di Milano e l'ho poi rivisto nel 2017, per l'ultima volta all'Arena di Verona con il cast originale. Immaginatevi quindi la mia gioia quando hanno annunciato che il tour francese si sarebbe fermato per una manciata di tappe proprio a Londra! Gioia e ansia in realtà, perché il mondo anglosassone ha sempre avuto qualche difficoltà con il musical l'opera popolare di Riccardo Cocciante e Luc Pamondon. Notre Dame debuttò a Londra nel 2001, nel gigantesco Dominion Theatre, dove rimase in scena per diciassette mesi e ottenne alcune delle peggiori recensioni mai scritte. Furono criticate le musiche e i cori non dal vivo (l'assenza di un'orchestra in un musical a Londra è un vero sacrilegio e non a torto, considerando i prezzi), il libretto poco dinamico, la recitazione sopra le righe e, in generale, un'eccessiva melodrammaticità.

Del resto, Notre Dame è davvero un po' un pesce fuor d'acqua nel panorama musicale anglosassone. Cocciante ha sempre rifiutato l'etichetta di "musical", affermando orgogliosamente che la sua creatura è un'opera popolare. E' una defininizione che lascia un po' insoddisfatti, ma vederlo finalmente in scena nel cuore del West End mi ha fatto davvero capire che non è un musical. O forse lo è, ma il linguaggio è decisamente diverso. E' indubbiamente melodrammatico e operistico in scala: tutto è amplificato, i gesti, le voci, le emozioni, il trucco. Non sarebbe certo il primo musical ad essere un po' melodrammatico - sicuramente ricorderemmo Les Misérables e The Phantom of the Opera - ma a differenza dei suoi fratelli maggiori inglesi, Notre Dame rigetta ogni forma di realismo. Mentre tutte le altre produzioni nascondono i microfoni sotto le parrucche, il cast di Notre Dame li sfoggia fieramente accanto alla bocca. E mentre gli altri cantanti di Broadway e di Londra si vantano di essere raffinati attori che hanno frequentato la Juilliard School o la Royal Academy of Dramatic Art, il cast di Notre Dame dà libero sfogo a una gamma di espressioni grottesche e movimenti esagerati. Per il pubblico londinese è difficile accettare un Frollo che entra ed esce di scena turbinando il mantello nero come un cattivo della Disney.

Angelo Del Vecchio (Quasimodo) e Hiba Tawaji (Esmeralda)


E se da una parte hanno sicuramente ragione - Notre Dame è davvero tanto, a volte anche troppo - in Italia lo amiamo. E anche in Francia. E, recentemente, anche in Corea. Non c'è che dire, tradotto in nove lingue, andato in scena in 23 nazioni e visto da oltre tredici milioni di spettatori, Notre Dame è sicuramente lo show dei record. Un ruolo non marginale in questo successo è quello della meravigliosa storia di Victor Hugo, lo struggente amore del deforme campanaro Quasimodo per la bella gitana Esmeralda, di cui si innamorano anche l'arcidiacono Frollo, il poeta di strada Gringoire ed il capitano degli arcieri Phoebus. Sarà proprio quest'ultimo ad essere scelto da Esmeralda, originando una spirale tragica che porterà alla morte di quasi tutti i personaggi. Ma è innegabile che il vero trionfo dello spettacolo è l'eccellente colonna sonora di Riccardo Cocciante, che ha scritto una canzone più bella dell'altra sfornando perle come "Il tempo delle cattedrali", "Bella" e "Vivere per amare". Ora per la prima volta, parte della colonna sonora è stata eseguita dal vivo al London Coliseum da una sezione di venti archi diretti da Matthew Brind. Indubbiamente la differenza di sente e l'overture non è mai stata così bella.

Per noi italiani così abituati alla produzione che va in tournée nelle nostre città da ormai vent'anni è anche interessante notare le differenze nella messa in scena: alcuni costumi sono più elaborati, il trucco meno marcato, alcuni numeri più acrobatici e Fiordaliso veste un più lusinghiero abito rosa. Anche ascoltare lo show nella sua lingua originale ha un suo perché: i versi di Luc Plamondon sono più vicini al romanzo di Hugo e caratterizzano i personaggi i maniera leggermente diversa da quelli nella traduzione di Pasquale Pannella: Phoebus, per esempio, è più sgradevole in francese, anche se il suo assolo "Cuore in me", in francese "Déchiré", gioca su un'interessante assonanza tra questo senso di lacerazione (déchiré, appunto) e il desiderio (désir). I versi italiani hanno però il merito di sviluppare meglio alcuni punti, mentre il francese tende a ripetere certi versi ancora e ancora.


Daniel Lavoie è Frollo


L'italiano Angelo Del Vecchio è un ottimo Quasimodo e può vantare il primato di essere l'unico attore ad aver cantato il ruolo in tre lingue differenti. Alternando il timbro gutturale da campanaro deforme a note più pulite, il Quasimodo di Del Vecchio sembra incarnara Notre Dame, con i suoi gargoyles e le guglie che si slanciano verso il cielo. Stupende e struggenti le sue "Dieu que le monde est injuste" e "Dans Mon Esmeralda". Nel ruolo della bella gitana, Hiba Tawaji regala una performance intensa e sensuale, perfetta dal momento in cui entra con un passo da cerbiatta in scena per cantare "Bohémienne" a quello in cui fa commuovere con "Vivre". Daniel Lavoie interpreta Frollo dalla produzione originale del 1998 e anche se la voce decisamente non è più quella di un tempo la sua interpretazione è ancora incisivia e tormentata. Nonostante le dozzine di film, serie tv e cartoni animati in cui il romanzo è stato riadattato, credo che il musical presenti la versione di Frollo più vicina a quella descritta da Hugo, un uomo profondamente sofferente, lacerato dal desiderio e dalla differenza tra gli ideali medievali e quelli rinascimentali che si profilano all'orizzonte. Una condizione che Lavoie cattura in pieno, con tanto di mantello da pipistrello sempre svolazzante.

Richard Charest è Gringoire

A completare il cast ci pensano i personaggi satelliti Gringoire, Febo, Fiordaliso e Clopin. Il primo vanta il fascino e la voce stupenda - la migliore del cast - di Richard Charest, mentre il capitano è interpretato con arroganza e note non sempre perfette da Martin GirouxAlyzée Lalande è una bellissima e ottima Fiordaliso, dalla bellezza un po' infantile e dalla voce cristallina, mentre Jay è un Clopin possente e carismatico, che guida i sans-papiers nella loro lotta per l'asilo. Eccellenti anche i ballerini e gli accrobati che tengono tutto il pubblico con il fiato sospeso per i loro numeri da brivido sulle campane e sulla facciata di Notre Dame. Il palco del Coliseum è profondissimo, una caratteristica che ha un po' penalizzato numeri come "La festa dei folli" e "Libertà": in un palco tanto grande il corpo di ballo, per quanto ottimo, sembrava quasi perdersi.

Se i temi del musical e del romanzo di Hugo sono universali, il panorama politico degli ultimi anni ha dato un maggior peso al sub-plot dei clandestini in cerca d'asilo ed è difficile restare indifferenti a canzoni come "Les sans-papiers", "Condamnés" e "Déporés": canzoni che potevano sembrare quasi decorative e riempitive ora sono il cuore pulsante dell'opera popolare, mostrando la crudeltà di una società che oggi come allora ignora i valori che l'imponente cattedrale e l'educazione umanistica rappresentano – o dovrebbero rappresentare. E sì, sicuramente Notre Dame non sarà mai il beniamino del pubblico inglese, è troppo melodrammatico, è troppo europeo, è troppo troppo. Ma da italiano per me Notre Dame de Paris rimarrà sempre un commovente capolavoro, anche con i suoi difetti.

In breve. Un ottimo cast porta il musical in lingua originale nel cuore di Londra, un'esperienza bella e rara impreziosita dall'orchestra dal vivo.

★★★★½

Coming Clean ai Trafalgar Studios


L'opera prima del drammaturgo Kevin Elyot è recentemente tornata sulle scene londinesi a 37 anni dal debutto, per una stagione strettamente limitata ai Trafalgar Studios. Ambientata nella Londra dei primissimi anni ottanta, prima che l'AIDS sterminasse la comunità LGBT inglese, la pièce esplora il complicato mondo delle relazioni e del tradimento.

Tony e Gregg sono una coppia da ormai diversi anni, hanno un rapporto solido in cui possono anche concedersi delle scappatelle, purché non dormano mai con lo stesso uomo due volte. Ma quando nelle loro vite entra il bellissimo Robert, con cui Gregg comincia a fare sesso regolarmente, tutto cambia. Tony è ferito, gli ricorda dei loro accordi e gli chiede di smettere, ma Gregg non sa scegliere e non vede nessua differenza tra tradire Tony ogni volta con qualcuno di diverso o di farlo tutte le volte con la stessa persona. Tony allora impone al compagno un ultimatum, ma l'unico cuore che verrà spezzato sarà il suo.

Scomparso nel 2014 mentre preparava un revival del suo capolavoro, My Night with Reg, Kevin Elyot è stato probabilmente l'ultimo grande scrittore di commedie di maniere e nessuno come lui ha saputo usare le caratteristiche del genere per distruggerlo dall'interno. Questo grazie alla sua sapiente alternanza dei toni delle scene: in una i tre protagonisti discutono Verdi e Mozart, nell'altra soccorrono un loro amico vittima di un attacco omofobo. Coming Clean colpisce anche per la sua grande attualità, potrebbe essere letteralmente ambientata nel 2019 senza cambiare una virgola del testo: la mancanza di riferimenti alla crisi dell'HIV/AIDS, sempre presenti nei drammi LGBT degli anni ottanta e novanta, la libera da una temporalità specifica e la avvicina spaventosamente ai nostri giorni. Le preoccupazioni sulla fedeltà e le riflessioni sull'impegno e la monogamia appartengono inevitabilmente a chiunque si trovi in una relazione, gay o etero che sia.

Stanton Plummer-Cambridge (Gregg), Lee Knight (Tony) e Tom Lambert (Robert)


La commedia drammatica che il trentunenne Elyot scrisse nel 1982 funziona ancora meravigliosamente e il cast porta fuori il meglio dai personaggi. Il Gregg di Stanton Plummer-Cambridge è stoico e dotato di una pacata consapevolezza dell'ipocrisia della propria relazione e delle richieste di Tony, un ottimo Lee Knight bravo a nascondere i sentimenti del suo personaggio ma anche a rivelarli in maniera improvvisa e devastante. Il giovane Tom Lambert, in splendida forma, fa un eccellente debutto nel West End nel ruolo del bellissimo e (forse) ingenuo Robert, il ragazzo delle pulizie che entra nella vita della coppia e otterrà prima il desiderio e poi l'amore di Tony; Lambert è davvero ottimo nel suo ruolo e il suo grande merito è forse quello di non dare una direzione precisa al suo personaggio, rendendolo difficile da giudicare: sarebbe impossibile accusarlo di essere uno "sfasciafamiglie", l'innocenza di cui ricopre il suo Robert lo salva dall'accusa. Unico anello debole è Elliot Hadley nel ruolo di William, l'amico flamboyant di Tony e Greg: sopra le righe dovrebbe essere il suo personaggio, non la sua recitazione. Nella scena finale che rivela il destino della relazione dei due protagonisti, Hadley interpreta, con maggior successo, Jurgen, un olandese che Greg si porta a casa. Una scena che forse risulta un po' ridondante e unica sbavatura della pièce, anche se almeno dà ad Hadley la possibilità di redimersi.

Lee Knight (Tony), Elliot Hadley (William), 
Stanton Plummer-Cambridge (Gregg) e Tom Lambert (Robert)

Adam Spreadbury-Maher cura la regia e a lui va sicuramente il merito di aver riportanto alla ribalta una piccola gemma spesso trascurata da critici, pubblico e direttori di teatri. Con la fantastica colonna che ci riporta a uno dei momenti più gloriosi della musica e le splendidamente sciatte scenografie di Amanda Mascarenhas, il regista incastona il quadretto familiare nel piccolo Stage II dei Trafalgar Studios, facendo così immergere il pubblico - non più di un centinaio di persone - nell'intimità delle mura domestiche condivise da Gregg e Tony. Il risultato finale è un ottimo allestimento di un'opera prima che non solo non porta segni del passare del tempo, ma che anzi graffia con una sinistra attualità.

In breve. Ottimo revival di una gemma del teatro LGBT che, splendidamente diretta e recitata, è tutta da riscoprire.

★★★★