venerdì 31 marzo 2017

Sir Peter Shaffer Memorial al National Theatre


Peter Shaffer, acclamato autore di successi come Amadeus ed Equus, è scomparso lo scorso giugno, alla veneranda età di novant'anni. I suoi drammi e commedie lo hanno confermato come uno dei più amati drammaturghi degli anni 60 e 70, con lavori che sono rimasti in cartellone per oltre mille repliche e hanno ricevuto notevole successo di critica e di pubblico. Ancora oggi la sua fama è legata ad Amadeus, recentemente riproposto dal National Theatre, un potentissimo dramma che gli valse il Tony Award alla migliore opera teatrale e l'Oscar alla miglior sceneggiatura quando Milos Forman lo riadattò in un film di grande successo. I suoi lavori dimostrano una vasta gamma di interessi mondani e culturali, con una particolare passione per l'indagine della mente umana e dei meccanismi della storia, ma anche il gusto per il comico nelle esilaranti commedie Black Comedy e Lettice e Lovage.

Ieri pomeriggio il National Theatre lo ha commemorato con uno splendido gala che ha ripercorso la vita e le opere di Shaffer, sotto la divertente forma di un processo in cui un avvocato chiama l'autore stesso alla sbarra per rispondere alle sue domande. E, nel corso del "processo", vengono chiamati a testimoniare anche collaboratori e amici, che hanno dato alla commemorazione un tocco di star-quality. Nel ruolo di Shaffer l'acclamato attore Shakespeariano Michael Pennington ha fatto rivivere il drammaturgo con ironia e carisma, mentre un altro grande del teatro inglese, Simon Callow, lo metteva alle strette. Dai primi tentativi come l'ironico Five Finger Exercise all'ultimo successo Lettice and Lovage, le opere di Shaffer sono brevemente tornate a vivere in scena, grazie a un talentuoso cast che comprendeva star del calibro di Maggie Smith, Ian McKellen, Daniel Radcliffe, Michael Gambon, F. Murray Abraham, Derek Jacobi e Tom Mison.

Ci sono state anche affettuosi ricordi sull'autore come persona generosa e unica, soprattutto nelle commosse parole del drammaturgo Tom Stoppard (Travesties) e Daniel Radcliffe (che fece il suo debutto teatrale con Equus). La Southbank Symphony ha regalato bei momenti con l'esecuzioni di commoventi pezzi di Sondheim, Mozart e Shubert, oltre ad aver accompagnato Lucian Msamati in una scena tratta da Amadeus. Ma il grande momento del gala è stato quando Maggie Smith, la leggenda del cinema e del teatro inglese riportata alla ribalta da Downton Abbey, ha ricreato il suo iconico ruolo in Lettice and Lovage, un ruolo che le valse un Tony Award nel 1990. Nessuno supera il genio comico e il potere che la Smith ha sul suo pubblioco, è bastato un "however" per generare risate e scroscianti applausi.

Particolarmente toccante la parte finale del gala, quando sono stati ricordati i cari di Shaffer stroncati dall'AIDS, tra cui l'amato compagno di una vita. Quello messo in scena al National Theatre è stato un glorioso omaggio a un grande scrittore, fatto rivivere nelle parole e nelle performances di artisti che hanno segnato un'epoca.

venerdì 24 marzo 2017

42nd Street al Theatre Royal, Drury Lane


42nd Street è uno dei grandi classici moderni, un musical debuttato a Broadway nel 1980 e basato sull'omonimo film con Ginger Rogers del 1933. Il musical aprì i battenti a Londra nel 1984 (proprio al Drury Lane!) e lanciò una giovanissima Catherine Zeta-Jones che, in un colpo di scena simile a quello nerrato nello spettacolo, andò a sostituire la star malata una sera in cui dei produttori erano tra il pubblico. 

New York, 1933. Il regista Julian Marsh sta per mettere in scena un nuovo costosissimo spettacolo di varietà con protagonista Dorothy Brock, una diva non più giovanissima. Sfortunatamente, Dorothy si rompe una gamba durante il rodaggio a Filadelfia e lo spettacolo sembra condannato a una morte prematura. Ma la giovane Peggy Sawyer, appena arrivata a New York sognando Broadway, sostituisce la diva all'ultimo momento e diventa una star.

42nd Street è esattamente tutto quello che vi viene in mente quando sentite parlare di musical: ballerine di fila, tip tap, coreografie pazzesche, costumi fantastici, luci, sogni che si avverano e un lieto fine. E' così stereotipicamente musical che uno potrebbe pensare che sia una specie di scherzo, una parodia. Purtorppo il libretto di Michael Stewart non è abbastanza acuto per questo, ma anzi, perde anche le occasioni di fare il minimo indispensabile. Quando Peggy mette piede nella sala prove sappiamo tutti che entro un'ora e mezzo diventerà una star: Stewart si appoggia su questa consapevolezza e ci appioppa tutti gli altri cliché che gli vengono in mente. Quello che secondo me è il vero difetto del libretto è il non saper valorizzare il periodo storico in cui il musical si svolge: siamo in piena Grande Depressione, la gente sta letteralmente morendo di fame. Ma il musical non ci mette mai davanti a questa realtà e così anche quando lo show minaccia di chiudere per l'assenza della star, noi finiamo per non preoccuparci più di tanto: i ballerini si lamentano che perderanno il lavoro, ma non realizziamo mai le implicazioni. Il programma di sala, giustamente, ci avverte che se il coro venisse licenziato non avrebbe nessun altro mezzo di sostentamento, il musical è una sottile speranza di restare a galla e non sprofondare nella terribilie povertà che affligge il Paese. Peccato che non l'abbiano fatto notare anche a Stewart: se avesse evidenziato quanto fosse alta la posta in gioco, il testo sarebbe risultato più teso e interessante. E invece scivola via, senza particolari picchi di emozioni né sorprese: anche il lieto fine sarebbe stato più bello se ci fosse stata almeno qualche difficoltà da superare durante il percorso.



A risollevarci il morale ci pensa la colonna sonora di Harry Warren (musiche) e Al Dubin (versi), canzoni frizzanti e divertenti che includono le celebri We're in the Money, Lullaby of Broadway e 42nd Street, il grande numero che conclude lo spettacolo di varietà e anche il musical. Ma la vera star della serata sono le coreografie di Randy Skinner, che sanno sfruttare al pieno il talento del numerosissimo cast: quando cento piedi colpiscono il palco con perfetta sincronia in un numero di tip tap...bé, è difficile non rimanere impressionati. Ottimi e ben caratterizzati sia i numeri diegetici che quelli eterodiegetici, brillanti coreografie che strizzano l'occhio alle Ziegfeld Follies con costumi luccicanti (ottimi, di Roger Kirk), specchi che riflettono il disegno e che si avvalgono in pieno della monumentale scenografia di Douglas W. Schmidt. Si possono criticare a oltranza i limiti del libretto, ma dei protuttori si può dire tutto tranne che siano stati tirchi.

Per l'occassione hanno anche riesumato Sheena Easton, che usa la sua voce pastosa e il naturale atteggiamento da diva per delineare una Dorothy divertente e, a tratti, anche toccante. Le hanno anche aggiunto una canzone, Boulevard of Broken Dreams, e la Easton se la cava egregiamente. Tom Lister delude nei panni del regista Julian Marsh, la sua ottima voce non compensa per una recitazione al limite dell'amatoriale, che consiste prevalentemente nel lanciare sguardi da maniaco al pubblico. Maggie Jones e Bert Barry, la coppia comica dello show, sono gli eccellenti Jasna Ivir e Christopher Howell: la prima stupisce con una voce potentissima, l'altro ha i tempi comici di un consumato uomo di teatro. Stuart Neal (The Winter's Tale, Harlequinade) è irresistibilmente irritante nel ruolo di Billy, il primo attore della compagnia: ottimo timbro tenorile, carisma da vendere e ballerino con i fiocchi.



Clare Halse è superba nel ruolo di Peggy Sawyer, il suo è uno dei quei debutti che possono segnare una carriera. Oltre a ricordare una giovane Lauren Bacall, la Halse balla divinamente, ha una voce da brivido, fascino, simpatia e una presenza scenica da vendere. Spero proprio che 42nd Street le serva da tramplino di lancio per lavori nuovi e * ehm ehm * migliori. Per quanto i protagonisti siano tutti bravi (e lo sono davvero), l'anima del musical resta fedele al suo intento e il grande protagonista dello spettacolo è il coro. Erano anni che il West End non si trovava davanti a un musical di queste dimensioni: il cast conta più di cinquanta artisti, 43 persone nel coro, di cui 15 ballerini e 28 ballerine. Quando ballano tutti insieme e in perfetta sincronia sono da mozzare il fiato: il gran finale (sopra la foto!) è un capolavoro di bravura, opulenza e precisione. Indimenticabile anche la prima scena: dopo la splendida overture, il sipario si solleva di un metro per mostrare una fila di cento gambe che ballano il tip-tap.

42nd Street è uno di quei casi in cui una produzione francamente perfetta fa brillare una materia prima non propriamente ispirata: capisco che il libretto di Stewart si voglia mantenere vicino alle intenzioni del film originale, quello di risollevare il morale delle persone flagellate dalla Depressione senza ricordagliela. Ma il 1980 non era il 1933 e se il film originale era davvero uno spettacolo d'evasione, quello del 1980 aveva semplicemente un libretto cretino e gli ultimi 37 anni dal debutto hanno solo rimarcato questo aspetto. Tuttavia, 42nd Street si fa perdonare con il suo cast eccezionale, l'ottima orchestra e le coreografie pazzesce: se avessero sistemato un po' il tiro, avrebbe potuto essere il musical perfetto.

In breve. Faraonico revival di un classico moderno, un musical con coreografie bellissime, un ottimo cast e belle musiche zavorrate da un libretto inconsistente.

★★★★

sabato 18 marzo 2017

An American in Paris al Dominion Theatre


Tratto dal celebre film con Leslie Caron e Gene Kelly, An American in Paris ha appena cominciato le repliche al Dominion Theatre di Londra dopo essere rimasto in cartellone per oltre diciotto mesi a Broadway. Il musical riprende la storia e le canzoni del film di Vincent Minnelli e aggiunge altre canzoni di  George e Ira Gershwin, come le celebri I Got Rhythm e 'S Wonderful.

Alla fine della guerra il soldato Jerry Mulligan decide di restare a Parigi e dedicarsi alla pittura. Qui conosce un altro americano, il compositore Adam Hochberg, e un altolocato rampollo francese, Henri Baurel. Baurel è fidanzato con la ballerina Lise Dassin, amata da tutti e tre gli uomini. Quando Lise ottiene il ruolo principale in un balletto al Théâtre du Châtelet, Jerry viene assunto come scenografo e cercherà di conquistare la ragazza nel tempo che hanno insieme. In una Parigi profondamente segnata dalla guerra, tre giovani uomini cercano l'amore, ma solo uno di loro lo troverà.

An American in Paris è una bellissima commedia romantica, un musical molto tradizionale che unisce una colonna sonora straordinaria a delle corografie mozzafiato. Christopher Wheeldon ha curato sia la regia che le coreografie e sono sicuramente le ultime a lasciare l'impronta più importante sullo spettatore. Il musical presenta intere sequenze esclusivamente danzate, in particolare il balletto finale sulle note del poema sinfonico di Gerswhin che dà il nome al musical. Il libretto di Craig Lucas (The Light in the Piazza) non è al di sopra di ogni critica, ma regala momenti romantici, divertenteni e commoventi.

La star del New York City Ballet Robert Fairchild interpreta Jerry e porta con sé sul palco uno straordinario talento nella danza: Fairchild è un bravo attore e cantante, ma è la sua danza che rende la performance così memorabile e porta l'intero musical a un livello superiore. Fairchild è un leading man da sogno, un protagonista maschile di un tale calibro che nessun musical del West End ne vedeva uno così da un bel pezzo. La solista del Royal Ballet Leanne Cope è una bravissima Lise; come Fairchild, se la cava molto bene in canto e recitazione, ma è nella danza che la sua interpretazione raggiunge il massimo risultato. Purtroppo Lise fa relativamente poco per la gran parte del musical, ma nell'ultima mezz'ora si riscatta nella straordinaria sequenza del balletto: là la Cope dà pieno sfoggio al suo talento e afferma definitivamente la sua Lise come un personaggio forte, talentuoso e ben delineato.

Robert Fairchild e Leanne Cope

Nel ruolo del narratore e compositore Adam Hochberg, David Seadon-Young regala una performance molto umana e sentita che rende il suo Adam un beniamino del pubblico. Giovane artista tormentato e ferito in guerra, Adam si interroga (un po' superficialmente) sul ruolo dell'arte e dell'artista e Seadon-Young porta in scena una vasta gamma di emozione e un bel timbro tenorile. Deludente Hayden Oakley nel ruolo di Henri Baurel, il giovane aristocratico fidanzato con Lise e con sogni di diventare una stella del varietà. La performance di Oakley è anche più blanda del suo personaggio e il suo grande numero I'll Build a Stairway to Paradise avrebbe giovato di un maggior talento vocale. Peccato poi che ogni tanto Okaley si dimentichi di essere francese ed il suo accento parigino appare e scompare con la velocità di un illusionista. Molto brava Jane Asher nel ruolo di Madame Baurel, la madre di Henri che si destreggia tra mecenate delle arti e snob a livelli olimpici. Ruba la scena Zoë Rainey (The Winter's Tale) nei panni della ricchissima americana Milo Davenport: purtroppo non ha molto spazio, ma ogni volta che mette un piede sul palco la scena diventa subito sua.

Robert Fairchild e Leanne Cope

An American in Paris ha un massiccio cast di una cinquantina di attori che, oltre ai protagonisi, annovera tra le sue file un nutrito gruppo di eccellenti ballerini. Sono loro, insieme a Fairchild e alla Cope, a portare una mangifica energia ed eleganza alla serata, con i bellissimi numeri che Wheeldon ha coreografato: davvero, mancano i superlativi per descrivere quanto siano belle le scene di danza. Bellissimi anche i costumi e le eleganti scenografie di Bob Crowley, le luci di Natasha Katz e le proiezioni suggestive del 59 Productions. Il risultato finale è un musical d'altri tempi, straordinariamente raffinato, con grandi numeri musicali e un protagonista eccezionale.

In breve. Splendida commedia romantica elevata dalla colonna sonora dei Gershwin, da coreografie mozzafiato e da una performance straordinaria di Robert Fairchild.

★★★★½

venerdì 17 marzo 2017

Project Polunin al Sadler's Wells Theatre


Salutato come il più grande ballerino della sua generazione, Sergei Polunin è l'enfant terrible del balletto: diventato solista del Royal Ballet a soli diciannove anni, a ventuno ha lasciato la Royal Opera House perché sentiva che l'artista in lui stava morendo. Dopo aver partecipato a diversi progetti in tutto il mondo ed essere diventato famoso su YouTube grazie al video in cui danza sulle note di Take Me To The Church, Sergei ha fondato il Project Polunin nel 2015, per far avvicinare la gente alla danza. Per una settima soltanto, Sergei è tornato a Londra per calcare uno dei più rinomati palchi della danza moderna, il Sadler's Wells Theatre. Accanto a lui c'è la fidanzata, l'ottima ballerina russa Natalia Osipova. Il Project Polunin presentato al Sadler's si compone di tre parti, composte e coreografe da artisti diversi.

Apre la serata Icarus, the Night before the Flight, un breve balletto musicato da Sergei Slonimsky e coreografato dalla leggenda vivente della danza classica che è Vladimir Vasiliev. Debuttato al Bolshoi nel 1971, Icarus è uno di quei precisissimi balletti sovietici che preferiscono la tecnica al sentimento: la notte prima del suo celebre volo, Icaro è tentano dall'amata Aeola a rinunciare alla sua avventura a favore di una vita tranquilla insieme a lei. Dopo un tormentato pas de deux, Icaro rifiuta rabbiosamente le proteste di Aeola e si prepara al volo. Dalla durata di soli quindici minuti, Icarus è sicuramente il pezzo migliore della serata e, anche se la musica non è eccezionale, permette a Polunin e all'Osipova di mostrare il  loro grande talento come solisti e come coppia. In particolare, Polunin sfoggia brevemente la sua grande tecnica, espressività e potenza nello scatto di Icaro: quella di Sergei è una performance rapidissima, tecnicamente perfetta ed incredibilmente espressiva. Vasiliev ha anche saputo sfruttare al meglio l'eccellenza di Polunin nella fase "aerea" dei suoi movimenti: si libra leggero molto in alto e i suoi meravigliosi sauts de basque e tours en l'air l'hanno reso famoso già dai tempi in cui, giovanissimo, danzava con il Royal Ballet.

Icarus

A Icarus segue Tea or Coffee, coreografato da Andrey Kaydanovsky, un pezzo ironico e sinisto che sembra essere molto ispirato dal Cafe Muller di Pina Bausch. Il confronto con la Bausch serve solo a dare un'idea, c'è un abisso tra i lavori della coreografa tedesca e questo trascurabilissimo pezzo. Fiocamente (anche troppo fiocamente) illuminato da Richard Howell, il balletto vede quattro danzatori creare una scena grottesca e vagamente minacciosa: il progetto è mediocre, ma i ballerini - Alexey Lyubimov, Valeria Mukhanova, Anastasia Pershenkova e Evgeny Poklitar - sono ottimi.

A questo sfortunato interludio segue quello che dovrebbe essere il pezzo forte della serata, un balletto più lungo e sostanzioso musicato da Ilan Eshkeri e coreografato dallo stesso Polunin: Narcissus and Echo. Purtoppo, è proprio il terzo atto a dare il colpo di grazia alla struttura che Tea or Coffee ha contribuito a indebolire. Il programma di sala ci informa che il balletto vuole offrire una riflessione sul narcisismo della società moderna e il messaggio ci viene non troppo sottilmente fatto recepire con i selfies di Polunin proiettati nello stagno. Più che una critica sociale, il balletto sembra mettere in mostra il narcisismo del suo protagonista e coreografo: la partitura è davvero bella, ma quello che lo spettatore si trova davanti è pura vanità di dubbio gusto. Il balletto comincia con Polunin che si pavoneggia in mezzo ad altri giovinetti tebani (i bravi Shevelle Dynott, Alexander Nuttall, Daniele Silingardi e Alejandro Virelles) in mezzo a una scenografia onirica e con costumi che sembrano essere usciti da un incubo pastorale del diciannovesimo secolo.

Polunin e Daniele Silingardi

I giovani Tebani si addormentato e le ninfe (Alexndra Cameron-Martin, Maria Sascha Khan, Adriana Lizardi, Callie Roberts e Hannah Sofo) danzano tra loro, guidate dalla bella Eco (Osipova). I giovani si svegliano e scorgono le ninfe, con cui danzano in un movimento che mette in luce una mancanza di prove. Alla fine, restano solo Polunin e l'Osipova, che danzano un acrobatico pas de deux finché Narciso non la rigetta, danza disperamente intorno allo specchio d'acqua e alla fine ci si abbandona detro. Non c'è che dire, Polunin si è davvero cucito il ruolo addosso, per evidenziare la sua bella figura e le sue doti "aeree", qui messe in mostra in abbondanza (fanno sempre il loro effetto, anche se gli atterraggi non sono sempre perfetti). Ma, come dicevo prima, Poluni finisce vittima della propria vanità (autocoreografarsi non è mai una buona idea) ed il suo assolo diventa ripetitivo, trascinato e noioso. La vera stella del terzo atto, e di tutta la serata. è Natalia Osipova: la sua grazie, precisione tecnica e i sentimenti che porta in scena surclassano il virtuosismo un po' vuoto del fidanzato e la confermano tra le migliori ballerine del momento.

Natalia Osipova

Per essere il Polunin Project, c'era decisamente poco Polunin: l'Icarus è il pezzo in cui è più presente, ma scompare per tutta la durata di Tea or Coffee e passa metà di Narcisus addormetato su Giove (non sto scherzando). L'Osipova è l'indiscussa protagonista del Narcisus e ruba la scena come solo una stella di grande talento sa fare. Polunin è un grandissimo ballerino che ha un terribile bisogno di materiale al suo livello: sprecare il suo talento con progetti autoindulgenti non è solo un peccato, ma anche un pericolo, come dimostrano le sporcature tecniche che lo tradiscono in Narcisus. Forse dovrebbe rinunciare all'aria d'artista maledetto, compiere un atto di umiltà e tornare a danzare in una compagnia. Perché, se la serata ha dimostrato qualcosa, è che Polunin è indiscutibilmente un grande artista, ma uno che ha ancora bisgono di guide e di struttura.

In breve. Due grandi artisti mettono in mostra il loro indiscutibile talento in una serata che alterna pezzi discreti ad altri decisamente mediocri.

★★★

The Girls al Phoenix Theatre


Vi ricordate Calendar Girls? Il film in cui Helen Mirren convince altre signore non più giovanissime a realizzare un calendario osé per raccogliere fondi per la lotta al cancro? Gary Barlow (quello dei Take That) ha musicato la storia (basata su fatti realmente accaduti) in un nuovo musical che da un paio di mesi intrattiene il pubblico del Phoenix Theatre.

Annie è inconsolabile dopo aver perso il marito John e l'indomabile Chris la coinvolge in un improbabile progetto: loro due e le altre signore del gruppo raccoglieranno soldi per beneficenza realizzando un calendario sexy. Il progetto non è visto di buon'occhio dai membri più conservatori della cittadina dello Yorkshire e il calendario provoca non pochi imbarazzi anche alle famiglie delle girls, in particolare ai figli adolescenti. Ma le indomite signore non si lasceranno scoraggiare e porteranno a termine la loro strampalata avventura.

Ci sono tante buone intenzioni dietro a The Girls ed è un musical in cui molte persone, specialmente quello non più giovanissime, si possono riconoscere. Tuttavia, lo spettacolo pecca di una certa inconsistenza e, anche se a tratti picevole, conta esclusivamente sulla simpatia del pubblico per funzionare. La colonna sonora di Gary Barlow è di una mediocrità sconfortante, a parte per un paio di canzoni: davvero carina One Year in Yorkshire, che apre e chiude lo show. Il libretto di Tim Firth non riesce a compensare le lacune della colonna sonora, ma anzi costruisce scene stilizzate e che mancano di profondità. La malattia e la morte di John, ad esempio, dovrebbero essere il cuore del primo atto, ma sono gestite male, in modo sdolcinato e poco sincero. L'unica grande eccezione è la scena in cui le sei girls scattano le foto per il calendario: è una perla di comicità, ma si fa attendere per quasi due ore.

Claire Machin, Sophie-Louse Dann, Joanna Riding, Claire Moore e Debbie Chazen

The Girls ha qualcosa che davvero non merita, un cast solido e dinamico: in particolare, le sei girls tengono a galla lo show con verve, gusto e tanto, tanto talento. Ognuna delle sei ha una canzone, un momento per brillare, ed è stata una scelta azzeccata: i loro personaggi e le loro interpretazioni sono così inscindibili le une dalle altre che non c'è da sorprendersi che i Laurence Olivier Awardw abbiano considerato la sei attrici tutte insieme per una nomination collettiva al premio per la migliore attrice in un musical. Claire Moore è Chris, la testarda ed esuberante fioraia che trascina le altre nell'impresa del calendario: la Moore ha un grande talento comico e, superati i sessanta, ha ancora un'ottima voce che sfoggia senza riserve. Annie, vedova e migliore amica di Chris, è una stupenda Joanna Riding, che porta classe e una gran voce ai momenti più intimi ed emozionanti del musical (in particolare, la sua canzone Kilimanjaro). A queste due "protagoniste" si affiancano le ottime Debbie Chazen (Ruth, moglie abusata con una tendenza a ricorrere al suo Russian friend, la vodka), Claire Machin (Cora, una "ragazza" madre al peperoncino), Sophie-Louise Dann (la procace Celia, già ottima attrice comica in Bend It Like Beckham) e una fenomenale Michele Dotrice (la temibile Jessie, insegnante in pensione decisa a non sottomettersi all'età).

Claire Moore e Joanna Riding

Oltre alle sei impareggiabili girls c'è anche un nutrito cast di mariti, figli e compaesani. Tra tutti spiccano James Gaddas (che porta fascino e gravitas con il personaggio di John), l'odiosa Marie di Marian McLoughlin e Frazer Hadfield, davvero ottimo nel ruolo di Danny, il figlio di Chris imbarazzato dal calendario e schiacciato dal peso delle aspettative dei genitori. Oltre al libretto, Tim Firth ha deciso di curare anche la regia e qui si potrebbe ricorrere a una serie di motti della nonna su quanto sia meglio fare bene una cosa piuttosto che farne male due. Piuttosto maldestre anche le luci di Tim Lutkin. Robert Jones ha curato i costumi e le scenografie: entrambi davvero belli, i primi spaziano dallo sciatto al glamour, mentre le seconde sono carinissime, funzionali e suggestive.

In breve. Musical mediocre salvato dalle belle performances di sei attrice che portano in scena tutto il carisma, la simpatia e l'energia di cui lo spettacolo ha un disperato bisogno.

★★★

domenica 12 marzo 2017

Ugly Lies the Bone al National Theatre


L'ultima fatica letteraria della drammaturga Lindsey Ferrentino ha aperto da poco i battenti al National Theatre, diretta da Indhu Rubasingham. Dopo i suoi successi nel ruolo di Medea e Goneril, la brava attrice Kate Fleetwood si cimenta in un altro ruolo impegnativo, quello di una veterana ustionata.

Jess è tornata sfigurata dall'Afghanistan, coperta da ustioni di terzo grado e senza nessun lavoro. La dolce sorella Kalcie si prende cura di lei al meglio delle sue capacità, ma Jess fa fatica ad abituarsi alla nuova vita, anche perché non sopporta il futuro cognato Kelvin ed il suo ex Stevie si è sposato. Per rendere il dolore più sopportabile e non renderla una morfinomane, l'esercito le offre di sperimentare una terapia con realtà virtuali sviluppate per lei e Jess si trova a scegliere tra la squallida realtà e un mondo di fantasia. 

Le premesse del dramma della Ferrentino sono anche interessanti, ma sviluppate in un modo che non fa mai brillare il potenziale dell'opera. La struttura incredibilmente ripetitiva (una scena nel mondo reale, una in quello virtuale, un'altra nel mondo reale e così via) non aiuta ad appassionarsi alla vicenda, ma il vero problema è che il dramma non ha una direzione. La storia si srotola davanti a noi, non annoia, ma nemmeno avvince. Alla fine dei novanta minuti, l'unico argomento davvero trattato sono le sofferenze di Jess: la terapia del mondo virtuale ha fallito, quindi la realtà è tutto quello che le rimane. E' difficile dire dove il dramma voglia andare a parare se non, forse, nella scena finale: la mamma di Jess, affetta da demenza senile, la riconosce immediatamente nonostante le ustioni e l'assenza prolungata, una riprova per la protagonista che la sua vera essenza non è stata consumata dalle fiamme.

Kate Fleetwood è Jess


Kate Fleetwood è molto brava nel ruolo di Jess e investe ogni piccolo movimento con tutto il dolore che l'ustionata deve sentire: si muove a scatti, come una marionetta, e vive negoziando dolore e rabbia. La Fleetwood si è sempre dimostrata un'attrice intensa e ora dimostra con la sua fisicità di essere capace di andare oltre: è un ruolo che richiede molto a un'attrice e lei supera la prova a pieni voti. Molto brava anche Olivia Darnley nel ruolo di Kalcie, la sorella premurosa e non particolarmente sveglia, e Ralf Little in quello del vigliacco (ma di buon cuore) ex fidanzato Stevie. Ruba la scena Kris Marshall nel ruolo della simpatica canaglia Kelvin, un inguaribile finto invalido che vive di sussidi e vuole sinceramente aiutare Jess. Brava anche Buffy Davis che, nel ruolo della mamma di Jess e Kalcie, è la protagonista del momento più spontaneo e meglio riuscito della serata.


Il vero protagonista è l'aspetto tecnico, con la suggestiva scenografia di Es Devlin e le stupende proiezioni di Luke Halls. Le due lavorano in stretto contatto per creare un mondo che è "altro", un mondo virtuale incredibilmente realistico e uno reale  spaventosamente onirico. Questi aspetti devono aver richiesto molte attenzioni, sforzi e fatica, peccato che non sia stata presentata altrettanto attenzione al dramma di per sé. E questo perché Ugly Lies the Bone è un'opera anche interessante, ma che non dice nulla su nessuno dei temi che affronta.

In breve. Dramma mediocre in cui l'aspetto visivo è migliore di quello emotivo.

½

venerdì 10 marzo 2017

Blasted allo Styx Bar

Abbiamo già parlato di Sarah Kane, la controversa drammaturga autrice di Cleansed. Ora, a ventidue anni dalla prima, lo Styx Bar propone un revival dell'opera prima della Kane, il violento atto unico Blasted. Debuttato negli ultimi mesi del conflitto in Bosnia, Blasted è un dramma enigmatico che esplora la relazione tra violenza e società moderna.

In una camera d'albergo a Leeds, il volgare giornalista Ian ha portato con sé la giovanissima e fragile Cate, una ragazza di cui abuserà emotivamente e fisicamente. Ma la relazione di potere tra i due cambia quando l'albergo è vittima di un attentato e, nella macerie della stanza, irrompe un soldato: non sappiamo che conflitto si stia svolgendo fuori dalla camera, ma ora c'è qualcun altro al potere, qualcuno di cui anche Ian dovrà aver paura...

La violenza fisica e sessuale delle opere della Kane è ciò che la rende controversa da sempre e che ha fatto fioccare accuse di mettere in scena atti brutali per compensare una mancanza di temi più profondi. Per quanto la Kane resterà per sempre un'autrice enigmatica, il suo scopo era più ambizioso: l'efferata violenza prevista dai suoi drammi serve a spingere il confine del realismo in un tentativo estremo di rappresentare l'irrappresentabile, perché se non si mette in scena qualcosa se ne nega l'esistenza. Per questo la scelta registica di Alastair Pidsley di proiettare la maggior parte delle indicazioni sceniche senza metterle in pratica mi lascia perplesso: se da una parta fa il meglio che può con il budget limitatissimo e ottiene un effetto particolarmente simbolico, dall'altra depriva il testo di una delle sue forze maggiori ed entra in contrasto con la volontà dell'autrice. Il risultato finale è dubbio, a volte funziona, a volte no. Nel finale, per esempio, Ian divora il cadavere di un neonato, qui rappresentato da un sacchetto pieno d'acqua: quando affonda i denti nella plastica, il sacchetto esplode e l'acqua schizza dappertutto. E' una scelta interessante, che trasmette la violenza del gesto e la frustrazione di Ian che non riesce a placare la propria fame. Ma la regia di Pidsley non è sempre così soddisfacente e il più delle volte il suo tentativo di stilizzare e allegorizzare la violenza diventa solo un mezzo per censurarla, spezzando le gambe a Blasted.

Nigel Barrett (Ian) e Nima Taleghani (il Soldato)

Il cast è altalenante. Verity Kirk nei panni di Cate sceglie di interpretare la ragazza lasciando intendere che sia ritardata. Aggiunge anche dei tocchi di malizia, sembra che a volte quasi stuzzichi Ian per vedere dov'è il limite: una scelta interessante, ma manca di profondità. Nigel Barrett ha lo stesso problema, il suo Ian è sicuramente odioso e irritante, ma non riesce mai ad attingere a quel livello di mostruosità che il ruolo richiede. La performance migliore è quella di Nima Taleghani nel ruolo del Soldato, il cui ingresso in scena risana la monotonia della prima parte. Taleghani ha la fortuna di essere protagonista delle parti migliori di Blasted, ma anche il talento di investire il suo personaggio con un'aria tormentata e ambigua, capace di crudeltà e momenti di grande lirismo. 

In breve. Alastair Pidsley dirige un allestimento non privo di meriti, ma che non si avvicina mai davvero al significato del testo.

½

martedì 7 marzo 2017

La dodicesima notte al National Theatre


Discutere su quale sia la commedia migliore di Shakespeare è una perdita di tempo, quindi dirò semplicemente che La dodicesima notte è la mia preferita. Dopo l'acclamatissima produzione del Globe con un cast interamente maschile, ora ci pensa il National Theatre a rimescolare le carte e i sessi: in questa produzione, infatti, Malvolio diventerà Malvolia è sarà interpretata da Tamsin Greig.

La nobile Viola naufraga sulle coste dell'Illiria e, per proteggersi da malintenzionati, decide di spacciarsi per un uomo. Si fa assumere dal conte Orsino sotto l'identità di Cesario e il conte la manda a portare i suoi omaggi ad Olivia, che vorrebbe sposare. Ma Olivia si innamora di "Cesario" e, a dispetto del rango e del suo stato di lutto, decide di sposarlo. La situazione si complica ulteriormente quando Sebastiano, il gemello di Viola sopravvissuto al naufragio, arriva in città...


La dodicesima notte è una commedia di straordinaria attualità e affronta il tema della sessualità e dell'identità di genere in modo davvero sorprendente, considerando che debuttò nel 1602. Questa produzione scava ancora più a fondo e, cambiando il sesso di tre personaggi, porta alla luce nuovi aspetti: il puritano maggiordomo Malvolio, il viscido Fabian e il foul Feste sono interpreti da donne. Quello che potrebbe sembrare un tentativo di dare linfa a un testo vecchio di secoli in realtà diventa la carta vincente dell'intera produzione: non solo un capolavoro come Twelfth Night non ha bisogno di espedienti per funzionare, ma Tamsin Greig nel ruolo di Malvolia è anche una delle più grandi performance comiche dell'anno. Interpreta il personaggio come una rigida governante segretamente innamorata della sua signora Olivia (un po' come la signora Denver di Rebecca, la prima moglie), ma senza ricorrere a stereotipi o altro: il punto di forza della sua performance è la grande simpatia di cui investe il personaggio, che tradizionalmente risulta odioso. La scena in cui riceve la finta lettera di Olivia è davvero un capolavoro di comicità e il tentativo di seduzione del secondo atto è un'opera di genio (anche grazie ai costumi, splendidi, di Soutra Gilmour). D'altro canto, avere un Malvolio al femminile rende anche particolarmente acuti i soprusi di cui il personaggio è vittima. Tradizionalmente, Malvolio legato, chiuso al buio ed "esorcizzato" dai suoi sottoposti per ripicca è uno dei momenti più divertenti della commedia, ma qui la scena lascia una certa amarezza. Anche se l'ampollosità e i manierismi del personaggio sono quelli richiesti dal testo, per la prima volta ci si sente sinceramente dispiaciuti per Malvolio/a e si realizza che è stato vittima di un abuso più che di uno scherzo.

Doon Mackichan (Feste) e Tamsin Graig (Malvolia)


Questa produzione di Twelfth Night sembra anche evidenziare una certa simpatia per gli sconfitti: la gioia dei matrimoni e delle agnizioni del finale è mitigata dalla solitudine di Malvolia e dalla sconfitta del buffo pretendente Sir Andrew (un fenomenale Daniel Rigby). Questo revival è assolutamente esilarante, ma il sapore agrodolce del finale lo rende particolarmente delicato e introspettivo. Certo, ci sono anche dei punti deboli: la regia di Simon Godwin è molto focalizzata sugli aspetti comici della commedia, ma a volte esagera e non va mai troppo per il sottile. Ad esempio, non è mai molto chiaro dove e quando ci troviamo: l'Illiria delineata in scena potrebbe essere la Sicilia, la Grecia, la Spagna o la Turchia a seconda del passaggio da una stanza all'altro, mentre i costumi e gli oggetti di scena suggeriscono un'ambientazione che potrebbe spaziare dagli anni Quaranta ad oggi.

Phoebe Fox (Olivia) e Tamara Lawrance (Viola/Cesario)


Il cast è generalmente molto buono: la Viola/Cesario di Tamara Lawrance è forse l'anello debole della produzione, peccato che sia la protagonista. Tuttavia, il resto del cast è di primissimo livello e nasconde ampiamente le lacune del personaggio principale. Phoebe Fox è un'Olivia giovane e divertente, una contessina determinata a mantenere il controllo il più a lungo possibile. Suo zio Sir Toby è interpretato da un esilarante Tim McMullan al pieno del suo talento comico, mentre il buffone di casa è una sboccacciata Doon Mackichan sempre piena di risorse. Molto bravi anche l'adorabile e goffo Duca Orsino di Oliver Chris, il fedele Antonio di Adam Best, l'ottimo Sebastian di Daniel Ezra e l'azzeccatissima Maria di Niky Wardley.

La produzione di Simon Gowdin si avvale pienamente delle infinite possibilità e budget della Sala Olivier del National Theatre: in circa tre ore vediamo di tutto in scena, da una macchina a una piscina, da un motorino a un fontana che zampilla oltre i sei metri. Ma tutti questi simpatici e costosi accessori non distraggono dalla grande vis comica della pièce, qui presentata al culmine della sua comicità ma anche con momenti delicatamente intimi.

In breve. Bella produzione della più divertente delle commedie shakespeariane, qui presentata in chiave moderna e con un casting poco ortodosso, ma davvero brillante.

★★★★

lunedì 6 marzo 2017

Travesties all'Apollo Theatre

Dopo tre mesi di repliche completamente sold out alla Menier Chocolate Factory, il revival diretto da Patrick Marber dell'eccezionale commedia di Tom Stoppard approda all'Apollo Theatre, nel cuore del West End. A oltre quarant'anni dal debutto, Travesties si riconferma un capolavoro, una pièce divertente e intelligente che indaga sulla memoria e sul ruolo dell'arte.

Zuringo, 1917. Mentre nel resto dell'Europa impazza la guerra, la Svizzera si mantiene neutrale ed è diventata un rifugio per artisti ed intellettuali. Henry Carr, un diplomatico dell'ambasciata inglese, si fa coinvolgere da James Joyce in una messa in scena dell'Importanza di chiamarsi Ernesto, mentre il padre del dadaismo Tristan Tzara cerca di sedurre Gwendoline, la sorella di Henry. Intanto Lenin pianifica di lasciare la città per tornare in Russia, allo sbando dopo la rivoluzione di febbraio, e con la moglie Nadya e la bibliotecaria Cecily (di cui Henry è innamorato) sta finendo di redigere Stato e rivoluzione...

Per quanto possa sembrare assurdo c'è qualche elemento di verità nella commedia. Carr e Joyce collaborarono davvero in una produzione del capolavoro di Oscar Wilde e la situazione degenerò in una causa legale a causa di divergenze sui proventi: si andò a processo e Joyce fu così deluso dal verdetto che si vendicò trasformando Carr in un personaggio ridicolo e alcolizzato nel quindicesimo episodio dell'Ulisse. Ma, come si scopre nel finale, questo è più o meno tutto ciò che c'è di vero nella commedia: in un frustrante coup de théâtre alla fine scopriamo che, come nella Coscienza di Zeno, quasi tutto quello che abbiamo visto fin'ora non è come sono andate realmente le cose. Ma non c'è malizia dietro la finzione: l'anziano Carr, il narratore, non ci ha mentito, è solamente vittima della tarda età e di una memoria non più ferratissima. Come Cecily ricorda al marito alla fine della commedia, lei non solo non ha mai aiutato Lenin a scrivere Stato e rivoluzione, ma Lenin e Joyce non si trovarono mai contemporaneamente a Zurigo.

Freddie Fox (Tzara) e Tom Hollander (Carr)


Attraverso gli occhi di un decrepito Carr, una Zurigo che non è mai esistite rivive davanti al pubblico, un intricato luogo della memoria in cui fatti reali si sovrappongono ad altri immaginari e dove la vita di ogni giorno finisce per confondersi con scene dall'Importanza di chiamarsi Ernesto. Infatti Travesties presenta diverse scene sulla falsa riga dell'Ernesto, con Tzara nel ruolo di John/Ernesto, Carr come Algernon, Lenin come Lady Bracknell e Cecily e Gwendoline nei ruoli delle loro omonime wildiane. Per sedurre Gwendoline, infatti, Tzara deve fingere di non essere lo scrittore dadaista Tristan (disprezzato dalla ragazza, una sostenitrice di Joyce), ma finge di essere suo fratello John, mentre Carr dovrò sostenere la finzione vestendo i panni di Tristan. E la situazione rimarca il sapore wildiano con motti di spirito che renderebbero Oscar fiero e con un eccessivo apprezzamento per i sandwich al cetriolo.

Sarah Quist (Nadya) e Forbes Masson (Lenin)

Ma Wilde non è il solo oggetto dell'indagine di Stoppard: James Joyce, dileggiato da Tzara e Carr, non è solo un personaggio della commedia, ma un punto di riferimento del suo stile. Infatti, come ogni episodio dell'Ulisse (che Joyce sta scrivendo a Zurigo) adotta uno stile differente, Travesties presenta delle scene davvero particolari: alcune si fermano e ricominciano da capo più e più volte, in altre i personaggi parlano in limerick, in altre ancora i personaggi diventano protagonisti di un numero di vaudeville. Quello che Travesties offre realmente è una profonda riflessione sull'arte e sul suo valore, portato in scena dalle diverse opinioni di Joyce, Tzara e Lenin a riguardo. E la grandezza di Stoppard è quella di dari pari importanza e profondità non solo alla tesi che lui condivide (quella di Joyce, dell'artista come guida morale che costruisce qualcosa che sopravviverà nei secoli), ma anche a quelle in cui non crede (quella di Tzara, l'arte è tutto ciò che l'artista crea, un'opera dissacrante e decadente contro il canone e la borghesia).

Peter McDonald (Joyce), Amy Morgan (Gwendoline), Clare Foster (Cecily)

Travesties è una commedia intelligente ed esilarante che richiede molto allo spettatore: senza certe conoscenze di base sul modernismo, Oscar Wilde e il dadaismo uno si potrebbe sentire un po' perso. Ma, d'altro canto, stimolare il pubblico è il compito dell'artista ed è una fortuna avere Stoppard a ricordarcelo. La regia di Patrick Marber è intelligente e coesa, tira fuori il meglio dagli attori e spinge il pubblico ad abbracciare anche certi nonsense della pièce: integra, come il testo richiede, finzione, memoria e realtà con la maestria di un esperto e il risultato finale è davvero di primissimo livello. Tutto questo andrebbe sprecato se il cast non fosse all'altezza di testo e regia, ma fortunatamente questo non è il caso: il cast è uniformemente eccellente, senza neanche un anello debole. Tom Hollander è un fantastico Henry Carr, che riesce a investire il personaggio di tutte le sue sfumature: il vecchio smemorato e consumato dai ricordi, il giovane dandy, un uomo brillante e spiritoso dietro cui si celano gli incubi di quello che ha dovuto vedere in guerra. La sua performance è un trionfo comico e la secchezza con cui recita certe battute è da manuale: Hollander può far piegare il pubblico dalle risate anche solo inarcando un sopracciglio.  

Tom Hollander (Carr)

Freddie Fox è eccezionale nel ruolo di Tristan Tzara e impiega tutto il suo talento per creare un personaggio simpatico e arrogante, un artista colto e profondo che cerca sempre di presentarsi come un ribelle. Ma molto brave sono anche Amy Morgan e Clare Foster nei ruoli di Gwendoline e Cecily, le due protagoniste femminili e interpreti di un bizzarro ma esilarante numero musicale nel cuore del secondo atto. Forbes Masson è un Lenin che cela un animo romantico, ma anche un leader in the making e un uomo duro e intransigente. Peter McDonald è perfetto nel ruolo di Joyce, con il suo forte accento irlandese e una profonda anima comica che rende il grande scrittore di Dublino una figura un po' ridicola nella memoria di Carr. Completano il cast Sarah Quist nel ruolo della moglie di Lenin, protagonista di uno dei momento più commoventi dalla commedia, e l'eccellente Tim Wallers nel ruolo del maggiordomo Bennett che, alla fine, si scopre essere l'ambasciatore inglese a Zurigo tanto invidiato da Carr.

In breve. Straordinario revival di un capolavoro di un grande maestro, magistralmente diretto e interpretato da un cast più unico che raro.

★★★★★

sabato 4 marzo 2017

Speech & Debate ai Trafalgar Studios


Il drammaturgo Stephen Karam ne ha fatta di strada nei dieci anni dal debutto di Speech & Depate, basti pensare che l'anno scorso il suo dramma The Humans ha vinto il Tony Award alla miglior opera teatrale. I Trafalgar Studios hanno scelto di usare la loro sala più piccola, lo Studio 2, con appena cento posti, per ospitare il debutto europeo di Speech & Debate.

Salem, Oregon. Solomon, Howie e Diwata sono dei ragazzi all'ultimo anno delle superiori, senza amici e con tanti desideri frustrati. Quando Diwata viene respinta alle audizioni del musical della scuola e a Solomon viene impedito di pubblicare un articolo sulle contraddizioni dei repubblicani, i due si incontrano nella squadra di dibattito della scuola. Dopo aver scoperto che un insegnante aveva provato ad abbordare Howie in una chat gay, i due cominciano ad indagare e Diwata trova un modo per ottenere finalmente quello che vuole: aiuterà Solomon ad indagare solo se lui e Howie preparenno con lei una performance che metta in mostra il suo talento.

Speech & Debate è uno di quei lavori a cui bisogna proprio affibbiare l'antipatica etichetta di "opera giovanile": il talento di Karam e il suo grande orecchio per i dialoghi sono già qui in nuce, ma ci sono anche un eccesso di zelo un po' inconcludente e una voglia di strafare. Questa commedia drammatica, infatti, affronta una serie di tematiche complesse, ma ne tocca così tante che il tempo basta appena per accennarle senza mai arrivare a un vero sviluppo. Cybersex, gravidanze adolescenziali, coming out, molestie sessuali, le cosiddette "terapie di conversione" per omosessuali, le discriminazioni sessuali e razziali, le solite problematiche legate all'adolescenza, la depressione. In soli novanta minuti si riesce appena ad abbozzare una panoramica di queste problematiche, figuriamoci a trattarle con la profondità che richiedono.

Patsy Ferran, Douglas Booth e Tony Revolori


Speech & Debate sembra dilaniato dalle sue due anime, quella drammatica e quella comica: e se la prima è decisamente inconsistente, la seconda è riuscita brillantemente. Infatti, la commedia trova forza nelle sue splendide battute e nel sarcasmo dei suoi protagonisti. In particolare, il genio comico di Patsy Ferran (As You Like It) nel ruolo di Diwata dà anima alla serata, in uno di quei rari casi in cui il talento di un attore riesce a portare del materiale mediocre su tutt'altro livello. La sua è una performance luminosa, che unisce gli estremi della sagacia della ragazza con quelli dei suoi aspetti più tormentati: la solitudine, la mancanza di talento, la gravidanza indesiderata. La Diwata di Patsy è una di quelle esasperanti aspiranti attrici che sopravvalutano il proprio talento e arruolano i riluttanti amici in produzioni amatoriali, ma è anche una ragazza sola che tenta disperatamente di attaccarsi a qualcuno. Al di là dei limiti del testo, l'interpretazione di Patsy è un vero trionfo e la riconferma tra le giovani attrici più dotate del panorama teatrale londinese. Al regista Tom Attenborough, che non ha saputo far conciliare le due anime del testo, va comunque il merito di aver aiutato Patsy a tirare fuori il meglio dal suo personaggio.

Douglas Booth, Patsy Ferran e Tony Revolori

Il grande talento della Ferran è messo ulteriormente in risalto dal mediocre contributo dei suoi coprotagonisti maschili. Douglas Booth (PoshPride + Prejudice + Zombies) interpreta il misterioso Howie, ma la sua performance si limita a una serie di manierismi che ci ricordano che il suo personaggio è indiscutibilmente gay. Il personaggio che Booth delinea sarà anche simpatico, ma assolutamente inerme: i suoi tratti cesellati sono l'unico vero apporto alla commedia. Ma se Booth non fa abbastanza, Tony Revolori (Grand Budapest Hotel) compensa facendo troppo: la sua è la performance eccessivamente dettagliata di un attore dilettante, ogni battuta è accompagnate da una lunga serie di espressioni facciali, da svolazzi delle mani, da sospiri drammatici. Forse in un teatro più grande certe pecche sarebbero anche passate inosservate, ma in una sala grande come un soggiorno la recitazione deve essere tenuta sotto stretto controllo per non diventare sopra le righe. Completa il cast nel duplice ruolo di un'insegnante e una giornalista la brava Charlotte Lucas (Red Velvet).

In breve. Patsy Ferran illumina una commedia drammatica che, se non riesce ad essere incisiva, riesce almeno ad essere molto divertente.

½