lunedì 29 novembre 2021

The Prince of Egypt al Dominion Theatre

Da quando la Disney adattò La bella e la bestia per le scene nel 1994 diversi altri produttori teatrali hanno intravisto le possibilità di trasformare film d'animazione in musical teatrali. È una scelta rischiosa, ma per un produttore i vantaggi sono molteplici: il titolo da solo attirerà famiglie con bambini, la colonna sonora è spesso ben collaudata (e non di rado premiata con un Oscar o due) e, al contrario di molti altri musical, non c'è bisogno di una celebrità nel cast per assicurarsi buoni incassi. La Disney ha ovviamente riscosso grandi successi con questo metodo: basti pensare che Il re leone è in scena contemporaneamente a Londra e Broadway da oltre due decenni. Se è vero che questo tipo di musical praticamente non ha bisogno di pubblicità, i rischi sono comunque elevati e se l'esperienza a teatro non riesce a ricreare la magia del film la delusione del pubblico può portare a veri e propri fiaschi al botteghino. Se The Lion King è e resta un successo è grazie non solo alla bellissima colonna sonora di Elton John, ma soprattutto alla visionaria regia di Julie Taymor. Altri musical non sono stati altrettanto ben riusciti e la Disney non ha ottenuto quanto sperato con Frozen o Tarzan a Broadway.

L'adattamento teatrale di film d'animazione non è più esclusivamente in appannaggio della Disney, come ci dimostra questo The Prince of Egypt in scena al Dominion Theatre fino a gennaio. Il musical è tratto dall'omonimo film del 1998, un vero gioiello del cinema d'animazione con una meravigliosa colonna sonora firmata da Stephen Schwartz, che comprende anche la canzone premio Oscar "When You Belive". Quello che ci ritroviamo davanti a teatro, tuttavia, non è un colossal biblico, ma una parabola sui rischi del nepotismo nelle arti. La regia di Scott Schwartz, il figlio dell'autore, commette tutti gli errori da manuale, ossia cercare di ricreare l'esperienza del film senza reinventarla per una diversa forma d'arte. Laddove la Taylor inventò un nuovo linguaggio stilistico e visivo per ricreare la savana del Re Leone, Schwartz Jr ci propina una cafonata con effetti speciali da luna park, orrende coreografie e un libretto gonfio come un cadavere rimasto per giorni nell'acqua. Mentre il film originale era elegante e diretto, il musical allunga a dismisura il brodo fino a farlo durare quasi tre ore. Le canzoni originali di Schwartz père sono bellissime: Deliver Us è un numero d'apertura da brivido e ottime sono anche Through Heaven's Eyes e l'attesissima When You Believe. Il compositore ha scritto un'altra dozzina di canzoni per il musical, ma nessuna ha la bellezza e l'impatto di quelle composte oltre vent'anni fa per il film: sono banali e ripetitive, ma questo Schwartz lo sa e per compensare ci fa ascoltare "When You Believe" una mezza dozzina di volte durante il secondo atto.

Il finale del primo atto

Anche il libretto è stato rimaneggiato con l'intenzione di rendere sia Mosé che Ramses più umani: il primo è pieno di dubbi per la missione assegnatagli da Dio, mentre il secondo alla fine vede la luce e si riappafica con il vecchio amico. Sono scelte interessanti che in mano a un team creativo migliore avrebbero potuto dare ben altri risultati, ma qui servono solo ad allungare una serata che è già di per sé interminabile. Il cast non è male: Luke Brady è un Mosé piacevole ed emotivo, il Ramses di Liam Tamne è affascinante e cantato molto bene, mentre nelle (più piccole) parti femminili troviamo la bella Sefora di Christine Allado (che canta benissimo, ma viene mortificata da una coreografia imbarazzante) e la Miriam di Alexia Khadime, che canta divinamente ma troppo poco. Davvero ottimo il Getro del veterano del West End Clive Rowe, che riesce a cavare il proverbiale sangue dalla rapa grazie al vivace "Through Heaven's Eyes".

Luke Brady e Christine Allado

Come accennavo, The Prince of Egypt chiuderà i battenti a Londra tra un paio di mesi dopo una storia di rappresentazioni travagliate. Poche settimane dopo la prima il teatro fu chiuso a causa del Covid, per poi riaprire solo tre mesi fa. Il musical è stato a lungo uno dei pochissimi spettacoli che si potessero vedere in una Londra semideserta per la pandemia, ma nemmeno la mancanza di alternative è riuscita a far innamorare il pubblico. Biglietti per le prime file a sole 25£ sono facili da acquistare anche un paio d'ore prima dell'inizio dello spettacolo e The Prince of Egypt finge di mantenere in vigore il distanziamento sociale per evitare di ammettere che la platea è mezza vuota. Mi dispiace per il bravo cast, che sicuramente meritava di meglio, ma se passata per Londra e avete una serata libera potere tranquillamente restare in camera e vedere Il principe d'Egitto sul vostro portatile: risparmierete soldi e delusioni.

In breve. Una regia maldestra rovina uno dei film d'animazione più amati in una riduzione teatrale da dimenticare.

domenica 28 novembre 2021

Stephen Sondheim

Venerdì è morto Stephen Sondheim. È morto serenamente, all'improvviso, nella sua casa nel Connecticut, un giorno dopo aver celebrato il Ringraziamento con amici. Aveva novantuno anni. Tantissimo è stato scritto e detto su Sondheim e moltissimo altro verrà scritto e detto nei giorni, nelle settimane e negli anni che verranno. Reperire informazioni non è certo difficile, bastano pochi click per leggere della sua reputazione, del suo status nel pantheon del teatro musicale, i suoi premi, i suoi lavori. E si potrebbe dire ancora di più di come Sondheim abbia ereditato la tradizione di Rodgers & Hammerstein e portato avanti il loro lavoro, rendendo così il genere del musical non uno di solo intrattenimento, ma mostrando anzi come esso potesse essere sfruttato per affrontare tematiche profonde in modo non inferiore a quello del teatro di prosa. La bellezza delle sue musiche, la versatilità del suo ingegno e l'intelligenza dei suoi testi lo hanno reso un'icona cultura americana, un modello e un'ispirazione per generazioni di compositori a venire. Chi di voi ha già visto Tick, Tick... Boom! su Netflix sa di cosa parlo. Sondheim non fu solo un grande uomo di teatro, un grande compositore, un grande paroliere, ma anche un grande mentore. La sua generosità e la sua passione per l'insegnamento hanno aiutato la comunità di Broadway in modi che non possiamo nemmeno comprendere del tutto. Le grandi rivoluzioni musicali, da Rent a Hamilton, hanno avuto dietro il suo zampino, visto che Sondheim è stato il mentore sia di Jonathan Larson che Lin-Manuel Miranda.

Altri hanno scritto con maggior competenza dell'impatto di Sondheim sul teatro musicale, io vorrei solo parlare del suo impatto sulla mia vita. È strano da dire, ma non ricordo esattamente quando conobbi e mi innamorai della sua musica. Sicuramente quando cominciai il mio inglese era troppo incerto per apprezzare a pieno l'intelligenza dei tuoi testi, ma sentivo che Sondheim mi parlava, catturava idee e sentimenti che credevo fossero solo miei. Penso di aver cominciato ad ascoltare Sondheim all'inizio delle superiori, intorno al 2009. Avevo visto il film di Tim Burton Sweeney Todd e mentre cercavo di scaricare (illegalmente!) la colonna sonora trovai invece l'incisione discografica del musical con il cast originale di Broadway, capitanato dalla gloriosa Angela Lansbury. Mia madre è una grande appassionata di Jessica Fletcher, quindi sapevo chi fosse la Lansbury, ma non sapevo che cantasse. Incuriosito, cominciai ad ascoltare e non smisi mai di farlo. Dato che il film era sottotitolato, sapevo di cosa parlassero le canzoni e dopo aver ascoltato il Broadway Cast Recording non tornai più alla colonna sonora del film: le interpretazioni di Angela Lansbury, Len Cariou, Victor Garber e del resto del cast sono leggendarie.

Da qui iniziai il mio viaggio di esplorazione nel catalogo di Sondheim: ogni canzone mi apriva una porta nuova, ogni cantante mi rimandava a dozzine di musical che non conoscevo. Ascoltando Sondheim ho scoperto un mondo, quello del musical di Broadway e del West End. Nel giro di un paio d'anni avevo scoperto tutti i musical di Sondheim, ma anche molto del panorama teatrale di Londra e New York: prima solo musical, poi anche tanta drammaturgia americana e britannica dell'ultimo secolo. Il mio inglese migliorò esponenzialmente: odiavo la mia prof, ma mi facevo spedire testi teatrali su Amazon ed imparai l'inglese leggendo i libretti dei musical di Sondheim, ma anche Tennessee Williams, Edward Albee, Peter Shaffer, Terrence McNally, Arthur Miller e tanti altri. Da un ginnasiale a rischio debito in inglese diventai un ottimo studente di inglese e ancora di più quando cominciammo a studiare anche la letteratura. Dopo la maturità classica nel 2014 mi sono trasferito a Londra e ho conseguito la laurea triennale in letteratura inglese e storia del teatro. Nel corso della triennale i miei interessi accademici si sono spostati sulla letteratura elisabettiana e ho poi conseguito la laura magistrale in studi rinascimentali. Ora sto facendo un dottorato sulla poesia inglese dell'ultimo decennio del XVI secolo.

Tutto questo è cominciato con Stephen Sondheim, senza di lui non sarei qui. E non dico "non sarei qui" in senso esistenziale o ontologico, intendo dire che non sarei un dottorando in anglistica che vive a Londra da quando avevo diciannove anni e che ora, nel cuore della notte, scrive questo post su una scrivania a Tottenham. Da quando mi sono trasferito a Londra ho avuto modo di vedere Sondheim due volte, durante due interviste al National Theatre. Entrambe le volte mi ha affasciato con la sua arguzia, la sua intelligenza, la sua passione. Molti dei musical che mi hanno cambiato la vita li ho visti di persona: Gypsy, Sweeney Todd, Follies, A Little Night Music e Company; altri li devo ancora vedere. Ma se penso a Sondheim penso anche alle amicizie che ho stretto a causa sua. Quante ore ho passato durante gli anni del liceo su forum di teatri, a scambiare rari bootlegs online a parlare con altri appassionati di Sondheim su tumblr. Grazie a lui ho stretto amicizie che durano ancora. Scrissi la mia tesina del liceo su di lui. Lo ascoltai durante le rotture più dolorose e i momenti più felici della mia vita. Lo ascolto ancora. Perché nella sua musica e nelle sue parole ci sono abissi di umanità, tutta la solitudine, tutta la gioia, tutta la paura che questa felicità non possa che durare pochi istanti.

Centinaia di persone tu Twitter hanno postato le foto di lettere che si sono scambiati con Sondheim. Perché Sondheim rispondeva a tutti, con parole gentili ed incoraggiamenti, risolveva dubbi, chiariva dei passaggi musicali, ringraziava per i complimenti e si professava felice che la sua musica venisse ascoltata da giovani e giovanissimi. Quando avevo sedici anni gli scrissi anche io. Non ricordo esattamente cosa gli scrissi, ma credo di aver espresso tutta la mia ammirazione e la mia gioia nel fatto che aveva scelto proprio un romanzo italiano, Fosca di Tarchetti, come base per uno dei suoi musical, lo splendido Passion. E una sera, mentre stavo per uscire con compagni di liceo per vedere l'Odissea di Robert Wilson al Piccolo, trovai nella cassetta delle lettere un grosso pacco. Quando lo aprì vi trovai dentro una sua foto autografata, una lettera e il CD della prima edizione londinese di Passion. Non ho parole per dire ciò che quella lettera e quel CD abbiano significato per me. In casa non ho più nessun lettore CD, ormai neanche i portatili li leggono più, ma di quell'album non mi sbarazzerò mai.

Le opere di Sondheim continuano ad essere portate in scena e ad essere reinventate come solo i grandi classici si prestano ad esserlo. A me Stephen Sondheim mancherà tantissimo, come un amico, come un nonno. Poche persone hanno cambiato il corso della mia vita quanto ha fatto lui. La musica è il suo grande lascito ed è con la musica che lo voglio ricordare. Ieri moltissimi artisti di Broadway si sono radunati a Times Square per ricordarlo con il numero di chiusura di Sunday in the Park with George, il suo musical più personale, quello interessato alla difficile vita dell'artista. Quando muore un ebreo non si dice "riposa in pace", ma "il suo ricordo sia una benedizione": ci sono pochissime cose sicure nella vita, come gli ultimi due anni ci hanno ampiamente dimostrato, ma che il ricordo di Stephen Sondheim sia e sarà una benedizione è una delle poche certezze che ho.


"Sunday for Sondheim" a Times Square, 28/11/2021

Lo schiaccianoci alla Royal Opera House

"It's beginning to look a lot like Christmas" è qualcosa che a Londra si può dire già da fine ottobre e con l'accensione dei meravigliosi angeli di Regent's Street a metà novembre la stagione natalizia londinese è ufficialmente iniziata da un pezzo. Ma Natale a Londra non significa solo mince pies e mulled wine, dato che è Lo schiaccianoci di Čajkovskij a farne da padrone e se venite nella capitale britannica nelle prossime settimane avrete modo di scegliere tra ben tre diversi allestimenti del balletto: quello portato in scena dal Royal Ballet a Covent Garden, dall'English National Ballet al London Coliseum e in un'originalissima messa in scena firmata da Matthew Bourne al Sadler's Wells. 

Giovedì sera sono andato alla Royal Opera House per vedere il loro bellissimo Nutcracker, giunto il 25 novembre alla sua 503° rappresentazione con il Royal Ballet. La serata è stata resa ancora più speciale dalla presenza nel pubblico di Sir Peter Wright, il coreografo del balletto il cui novantacinquesimo compleanno ricorreva proprio giovedì. E sono certo che Sir Peter sarà stato fiero del suo lavoro che, come quasi ogni Natale, torna a portare bellezza e maglia a Covent Garden. Certo, come i critici fanno notare dalla sua prima nel 1892, la trama del balletto è molto tenue e, nel secondo atto, anche la parvenza di una trama che si potrebbe intravedere nel primo tempo scompare praticamente del tutto. Ed è un peccato che questo allestimento soffra ancora delle riduzioni imposte dal Covid, che qua si materializzano nel numero ridotto di topi e fiocchi di neve nel primo atto. Resta però vero che neanche il Grinch potrebbe rimanere indifferente a questo miracolo di Natale che, per bellezza, sfarzo e musicalità, non ha eguali sulle scene londinesi.

Fumi Kaneko è la Fata Confetto


Due sono i fattori che rendono Lo schiaccianoci un classico intramontabile: la partirua di Čajkovskij e il talento degli artisti del Royal Ballet. La prima annovera melodie intramontabili come la danza della Fata Confetto e il Valzer dei Fiori, meravigliosamente eseguiti dall'orchestra, superbamente diretta da Koen Kessels. Allo stesso modo, nonostante un paio di sostituzioni dell'ultimo minuto, anche i ballerini sono in ottima forma e regalano un'interpretazione elegante e gioiosa dei passi che a Covent Garden sono già stati danzati per oltre cinquecento rappresentazioni. Fumi Kaneko ha sostituito l'indisposta Natalia Osipova, ma niente nella sua tecnica e luminosità tradiva preoccupazione o poca preparazione. Visto lo scarso preavviso con cui ha sostituito la collega, colpisce soprattutto la splendida alchimia con Reece Clark nel ruolo di un principe Coqueluche particolarmente virile. Così come la prima ballerina giapponese, anche Clark danza divinamente unendo atleticità e raffinatezza. Entrambi sono ottimi quando presi singolarmente, ma è nell'applauditissimo grand pas de deux che raggiungono un vero e proprio trionfo di grazie e armonia.

Meaghan Grace Hinkis (Clara) e Leo Dixon (Hans Peter) alla fine del primo atto

È sempre difficile provare a stabilire chi sia il vero protagonista del balletto: Clara e lo Schiaccianoci dominano il primo atto e quasi spariscono nel secondo, mentre la Fata Confetto e il Principe non mettono mai piede in scena prima del secondo tempo, che però è dedicato interamente a loro. Le sapienti mani di Wright hanno provato a dare equilibrio allo Schiaccianoci facendo ballare Hans Peter e Clara in alcuni dei celebri pezzi del secondo atto, nonché scrivendo un prologo e un epilogo in cui si scopre che lo Schiaccianoci è il nipote dell'onnipresente Drosselmeyer, che si riesce a ricongiungere con il ragazzo solo nella scena conclusiva, dopo che Clara ha spezzato l'incantesimo che lo aveva trasformato in Schiaccianoci. Certo, questo non basta a dare una vera e propria struttura drammatica all'opera, ma permette almeno a Clara e Hans Peter di non essere solo spettatori durante il secondo atto. Questo sarebbe un peccato visto che i giovani Meaghan Grace Hinkis e Leo Dixon sono dei bellissimi protagonisti. Dixon ha sostituito Valentino Zucchetti nel ruolo dello Schiaccianoci: è stata la sua prima rappresentazione nel ruolo di Hans Peter e, nonostante qualche incertezza nel primo atto, se la è cavata più che egregiamente. Di grande bellezza sono stati il suo momento da mimo e la danza russa del secondo atto. Ma del resto tutto il cast regala grandi emozioni per la sua tecnica e affiatamento: sia i momenti più realistici del primo atto che quelli onirici del secondo vengono danzati egregiamente in uno Schiaccianoci che vorremmo non finisse mai. Quindi, se passata per quel di Londra, non esitate e andatevi a far stregare alla Royal Opera House: per entrare nel magico regno della Fata Confetto non dovrete nemmeno uccidere il Re dei Topi, basta prendere un biglietto!

In breve. La magia di Čajkovskij (e del Natale) rivive ancora una volta a Covent Garden.

★★★

giovedì 18 novembre 2021

Macbeth alla Royal Opera House


Nel 1847 Giuseppe Verdi scrisse al suocero per presentare il capolavoro a lui dedicato, descrivendolo come "Macbeth che io amo a preferenza delle altre mie opere". Il modesto successo dell'opera fu motivo di cruccio per il maestro, che rimise mano alla partitura nel 1865 per una nuova versione, anch'essa accolta tiepidamente dal pubblico, questa volta a Parigi. Sarebbe felice però di sapere che negli ultimi settant'anni l'opera è stata decisamente rivalutata ed è ora parte del repertorio dei maggiori teatri del mondo: la Scala inaugurerà la sua stagione tra un paio di settimane proprio con Macbeth, come aveva già fatto nel 1975 con un superbo allestimento con una straordinaria Shirley Varrett e Piero Cappuccilli. Alla Royal Opera House la produzione firmata da Phyllida Lloyd viene messa in scena saltuariamente dal suo debutto nel 2002 e torna ora a Covent Garden per la prima volta dal 2018.  

Il connubio della regia della Lloyd e della scenografia di Anthony Ward regalano un Macbeth stilizzato e claustrofobico, tutto rinchiuso tra mura che rievocano una prigione, un manicomio e il senso di ineluttabilità che attanaglia i protagonisti. In particolare è la corona che i due bramano a rivelarsi il rischio peggiore, una vera e propria gabbia dorata in cui entrano consapevolmente nel momento dell'incoronazione. È una messa in scena semplice e austera che coglie nel pieno lo spirito dell'opera, soprattutto nella sua lettura verdiana. Tuttavia – e giustamente – la grande protagonista della serata è stata la musica, la ricca e inquietante partitura di Verdi, superbamente eseguita dall'orchestra e dal cast. La prima è stata diretta con vigore e precisione dal nostro Daniele Rustioni: si vocifera che sarà lui a rimpiazzare Antonio Pappano nel 2024 e, se così fosse, questo Macbeth dimostra che Covent Garden resterà in ottime mani. Sotto la sua bacchetta l'orchestra ruggisce e dà nuova vita alla partitura, grazie in particolare agli eccellenti ottoni.

Anna Pirozzi e Simon Keenlyside

Il cast non è da meno. Ero leggermente in pensiero per Simon Keenlsyde, il cui Conte d'Almaviva aveva poca voce l'estate scorsa alla Scala, ma qui è ancora in splendida forma. Certo, l'età comincia a farsi sentire e il suo timbro baritonale non è forse più ricco come un tempo, ma Keenlyside trasforma un (piccolo) limite in un'opportunità e usa delle note un po' più metalliche per delineare il conflitto interiore del suo Macbeth. Il suo Pietà, rispetto, amore resta comunque uno dei momenti più profondi e musicalmente impeccabili della serata, in cui il baritono si conferma ancora un interprete di rara sensibilità. Accanto a lui Anna Pirozzi è una Lady straordinaria che, giustamente, ottiene la maggiore ovazione della serata. Una grande presenza scenica, una recitazione intelligente che mescola spietatezze e compassione e una voce che rende pienamente giustizia alle arie e duetti assegnatele da Verdi renda la sua Lady Macbeth un trionfo sotto tutti i punti di vista: le sue Vieni t'affretta, La luce langue (un'aggiunta dell'edizione del 1865) e Una macchia è qui tuttora sono delle autentiche – e applauditissime – gemme.


Pirozzi e Keenlsyde non sono sicuramente le uniche eccellenze in scena. Günther Groissböck è un Banquo carismatico che vorremmo non smettesse mai di cantare, anche se ci dobbiamo accontentare di un ottimo Come dal ciel precipita. Un altro che non dovrebbe mai smettere di cantare è David Junghoon Kim che, nel ruolo di Macduff, commuove con una struggente Ah, la paterna mano, l'unica aria tenorile dell'opera. Completano il cast i giovani Egor Zhuravskii (Malcolm), April Koyejo-Audiger (Dama di Lady Macbeth) e Blaise Malaba (Dottore), tutti dotati di splendide voce e grande presenza scenica, come le loro future carriere sicuramente dimostreranno.

Le streghe

L'unica nota che, se non stonata, risulta almeno dolente, sono i momenti corali. O meglio, alcuni di essi. Oltre a tagliare Lady Macduff, incattivire ulteriormente Lady Macbeth e svariati altri cambiamenti del testo shakespeariano, Verdi moltiplica le streghe, che da tre diventano un coro. Nella visione della Lloyd queste "veggenti" sono ubique e implacabili, conoscitrici di misteri arcani e vero motore della tragedia. Le streghe spostano la scenografia, consegnano lettere, salvano Fleance dagli assassini ed incombono nel momento dell'incoronazione di Malcolm, suggerendo così futuri risvolti tragici che turberanno l'ordine appena stabilito. Con i loro turbanti rossi e il monosopracciglio (alas, niente barba!), le streghe hanno un grande impatto visivo, ma non sono altrettanto ben riuscite a livello acustico: cantano bene, ma la dizione è povera ed è impossibile sentire più di un paio di parole qua e là. È un peccato, anche perché a loro vengono affidati gli inizi del primo e del terzo atto, il cui impatto viene leggermente tarpato da un esordio non brillantissimo. Decisamente meglio riusciti sono i momenti corali di Si colmi il calice (in cui la Pirozzi regna sovrana, in tutti i sensi) e la meravigliosa Patria oppressa!: il tabelau di profughi orchestrato dalla Lloyd nel 2002 si dimostra tragicamente attuale.

In breve. Due grandi talenti italiani sono il cuore di un Macbeth musicalmente superbo e, in particolare, la direzione musicale di Rustioni suggerisce che non dovrà ricorrere al regicidio per rimpiazzare Pappano.


★★★½

lunedì 15 novembre 2021

Giselle alla Royal Opera House


Più che una vera e propria recensione questa è una lettera d'amore per Marianela Núñez, la straordinaria prima ballerina del Royal Ballet. La scorsa settimana l'ha vista impegnata in due repliche di Giselle – le numero 601 e 602 nella storia della compagnia –, in cui ha danzato prima nel ruolo dell'eponima protagonista e poi in quello di Myrtha, la regina delle Villi. Quello della forosetta Giselle è diventato ormai il suo cavallo di battaglia e proprio in questo ruolo tre anni fa aveva celebrato i suoi vent'anni con la compagnia. Ma, come direbbe Enobarbo, 'age cannot wither her' e anno dopo anno la Núñez si riconferma sempre di più come l'erede naturale della prima ballerina assoluta Alessandra Ferri. La sua Giselle non ha la focosità popolana della Osipova, ma brilla di luce propria dal momento in cui entra in scena. Nessuno potrebbe negare che la sua Giselle è probabilmente la figlia illegittima di un aristocratico, tanto regalmente si muove sul palco, tanto raffinata e la sua postura, ogni gesto e ogni movenza. Come hanno notato i critici, ormai la ballerina è a quel punto della sua carriera in cui ogni passo, per quanto intricato e frutto di anni di studi e lavoro, sembri ormai naturale ed eseguito senza sforzi: la danza è la lingua madre della Núñez, che la parla con una maestria difficile da imitare o eguagliare da chi le sta intorno.

Il suo storico partner Vadim Muntagirov è Albrecht e ciò non sorprende, dato che pochi altri riuscirebbero a tenerle testa per tecnica e stile. Muntagirov riesce a combinare virtuosismo e modestia, danzando con grande stile ma senza pavoneggiarsi. La sua è una performance particolarmente convincente nel primo atto, quando delinea un Albrecht ironico e affettuoso, leggero e che non prende nulla troppo sul serio. La grande alchimia con la Núñez regala uno splendido primo atto, coronato dalla scena della pazzia di Giselle: qui la prima ballerina argentina combina grande tecnica e una recitazione di grande intensità per delineare il ritratto di una mente fratturata. Risorgerà dopo l'intervallo come il più etereo degli spiriti, che con grazie e coraggio darà la forza all'uomo che le ha spezzato il cuore di superare la prova delle Villi. L'amore della sua Giselle trascende la morte e il suo candore dona grazia e perdono non sono ad Albrecht, ma a tutto il pubblico.

Marianela Núñez è Giselle

Un paio di sere dopo la ballerina ritorna in grande stile a Covent Garden non più come amante, ma come aguzzina di Albrecht. Nel ruolo di Myrtha, la regina delle Villi, la Núñez colpisce ancora una volta per la naturalezza e la precisione del suo stile, ma ancora una volta è la sua recitazione a darle quel qualcosina in più che non si può insegnare né imparare. La sua Myrtha nasconde dietro a una rigidità glaciale una natura più profonda, il ricordo di quando è stata umana. Quando Giselle – una splendida Yasmine Naghdi, elegante ed espressiva – le si para davanti per proteggere Albrecht – l'eccellente Matthew Ball (Swan Lake), in ottima forma – la Núñez indietreggia coprendosi il volto. Questo gesto, imitato da tutte le Villi, fa naturalmente parte della coreografia di Peter Wright, ma la ballerina argentina gli infonde un significato profondo: non indietreggia come Dracula davanti a un crocifisso, ma ricorda la regina delle nevi di Andersen, il cui algido cuore si scioglie davanti alla vista dell'amore. Quando Giselle danza per salvare Albrecht, la sua Myrtha si volta a guardarle con la coda dell'occhio e, quando lo fa, la sua postura di ammorbidisce momentaneamente. Le Villi, del resto, sono spiriti di donne morte prima del matrimonio, uccise dal tradimento degli uomini che avevano giurato loro eterno amore: la Myrtha della Núñez ha degli sprazzi di umanità che emergono, forse dopo secoli, tra le gelide membra da regina. Guardando Albrecht e Giselle, lei sembra rammentare il suo amore passato e perduto. Quando le campane risuonano per segnalare l'alba e, di conseguenza, la fine del suo potere su Albrecht, il volto della Núñez è attraversato da un'espressione di sollievo, come se uccidere il conte non fosse tanto il suo desiderio, quanto più il suo dovere. Imprigionata in un ruolo innaturale e sovrannaturale, Myrtha lancia un ultimo sguardo ai due amanti prima di sparire tra i primi raggi dell'alba: il miracolo di Giselle non è stato salvare Albrecht, ma ricordare alla regina delle Villi che, un tempo, anche lei aveva un cuore.

Matthew Ball (Albrecht) e Yasmine Naghdi (Giselle)


Accanto a questi cinque grandi interpreti, il cast che si affolla intorno a loro completa delicatamente la storia. Nella replica dell'8 novembre si è distinto particolarmente il gruppo del pas de six, capitanato dall'eccellente William Bracewell, fresco di uno straordinario debutto come Romeo nel balletto di Kenneth MacMillan. Molto bravo anche Luca Acri, che ha rimpiazzato Lukas B. Brændsrød nel ruolo di Hilarion: laddove il secondo è prestante e virile, il primo colpisce per il suo aspetto più fanciullesco e la grande rapidità dei movimenti, regalando un ritratto del personaggio più gentile e che ne rende la morte ancora più tragica. Nella replica del 10 novembre è invece Joseph Sissens a rubare la scena durante il pas de six, ma la vera novità è quella portata da Ball. Dei quattro Albrecht visti in queste due settimane, Ball è decisamente il più arrogante e superficiale, tanto che la sua caratterizzazione del personaggio spinge tutti i suoi colleghi ad alterare la propria. In particolare capiamo bene perché la Berthe di Kristen McNally è così restia ad accettare il legame tra la figlia e il giovane, che del resto dà ampia prova della sua superficialità. Quando viene scoperto dagli amici e dalla fidanzata, l'Albrecht di Ball è lesto nel liquidare la situazione come una sciocchezza, e mentre per Reece, Bonelli e Muntagirov è evidente che il conte stia inventando una scusa per giustificarsi, l'Albrecht si Ball sta dicendo la verità e tutta la scena nel villaggio non è stato che un interludio ludico per lui. Anche la morte di Giselle non sembra segnarlo così nel profondo: è turbato e scioccato dal suicidio della giovane, ma è la colpa ad angustiarlo, non la fine di un grande amore. Soltanto nel secondo atto il suo Albrecht maturerà e diventerà uomo, reso tale dall'amore immortale (e non del tutto meritato) che Giselle nutre per lui. La sua è una performance memorabile e quella con la splendida Naghdi è una partnership chiaramente destinata a durare e dare grandi risultati.

In breve. Ogni cast porta qualcosa di nuovo a Giselle, ma anche in mezzo a tutte le eccellenze del Royal Ballet Marianela Núñez si conferma essere il gioiello della corona.

★★★★

Pride and Prejudice* (* Sort Of) al Criterion Theatre


È una verità universalmente riconosciuta che Jane Austen è una delle scrittrici più amate e popolari della letteratura inglese. Parte di questo successo non si deve solo al suo spirito di osservazione più unico che raro, alla sua prosa cristallina e alla sua ironia sottile, ma anche ai numerosi adattamenti di grande successo dei suoi romanzi. L'intensa storia d'amore tra Hollywood e la Austen è iniziata nel 1940 e da allora abbiamo visto dozzine di film tratti da Emma, Persuasione, Mansfield Park e  Ragione e sentimento. Sono quasi quindici anni che i fan dibattono accanitamente per stabilire quale sia il miglior adattamento di Orgoglio e pregiudizio: per alcuni è la leggendaria miniserie della BBC del 1995, mentre per altri è il film del 2005. La miniserie è un'accurata riduzione televisiva che ripropone dettagliatamente il mondo creato dalla Austen e la sua ironia, ma ha anche il merito di aver lanciato la carriera di Colin Firth. Il film di Joe Wright, invece, ha consacrato Keira Knightley in un adattamento più sintetico e dal taglio un po' più moderno, che rimane fedele nello spirito al romanzo originale.

Quello di Isobel McArthur è un adattamento meno ambizioso, ma che sicuramente metterà d'accordo tutti i fan della Austen. Questa esilarante commedia musicale è una rilettura in chiava metateatrale di Orgoglio e Pregiudizio narrato interamente dai personaggi più periferici dell'opera di Jane Austen: i servi e i domestici che si affaccendano in giro per casa mentre i protagonisti vivono le loro storie d'amore. Le cinque serve – tutte bravissime e con formidabili accenti scozzesi – mettono in scena l'interno romanzo, destreggiandosi tra dozzine di personaggi e cambi repentini di scena. Il tutto, ovviamente, fatto in modo molto tongue in cheek: quella della McArthur è una rielaborazione molto moderna e posso assicurarvi che non esistente niente di più esilarante di vedere una damina in abiti Regency lasciarsi scappare un "shit" o "fuck".

Mr Bennet e le cinque donne Bennet


Ma non lasciatevi ingannare dalle apparenze: dietro il senso dell'umorismo sfacciato e irriverente si cela una profonda comprensione del romanzo della Austen e, a tratti, si ha l'impressione che queste cinque meravigliose attrici praticamente sconosciute abbiano catturato l'essenza delle eroine – e degli eroi – austeniani meglio di tanti premi Oscar. L'Elizabeth di Meghan Tyler, in particolare, è un vero gioiello e dietro alla sua ironia da Saturday Night Live vivono intense emozioni: quando si rende conto di aver malinterpretato Darcy e pensa di averlo perso per sempre, spezza il cuore portando in scena un dolore tanto diretto quanto devastante. Alla McCArthur non dobbiamo solamente il geniale adattamento per le scene, ma anche delle grasse risate: nel duplice ruolo della signora Bennet e di Mr Darcy regala i momenti più esilaranti della serata e non vedo l'ora di vederla riadattare ed interpretare qualche altro classico. Il resto del cast non è assolutamente da meno: Tori Burgess (Mary/Kitty/Mr Collins/Mrs Gardiner), Christina Gordon (Jane/Wickham/Catherine de Bourgh) e Hannah Jarrett-Scott (Charlotte/Bingley/Caroline) completano il cast con le brillanti interpretazioni che mettono in luce i loro talenti da caratteriste, cantanti e musiciste.

L'autrice Isobel McArthur nel ruolo di Mr Darcy

La capace regia di Simon Harvey mantiene sui binari giusti uno spettacolo che, altrimenti, potrebbe risultare eccessivamente sopra le righe, ma questo Orgoglio e pregiudizio abbraccia la propria metateatralità ed esalta quello che altri nasconderebbero. È un "gioco teatrale" nella più pura essenza del termine, in cui cinque fantastiche attrici fanno rivivere con semplicità un mondo che era della Austen, ma che in fondo è anche il nostro. Quello di Pride and Prejudice* (*sort of) è un piccolo miracolo, quello di uno spettacolo nato in provincia e – forte del passaparola e delle recensioni positivissime – è arrivato, passo dopo passo, sulle più prestigiose scene londinesi, quelle del West End. E nessuno potrebbe meritare questo successo più della McArthur e delle sue compagne: né gli amanti del teatro, né gli amanti della comicità, né – soprattutto – gli amanti della Austen potranno rimanere delusi da questa vera e propria gemma che va in scena al Criterion Theatre otto volte a settimana fino ad aprile. Quindi, se passate per Londra, seguite i consigli della signora Bennet e trattare questo musical come se fosse un ricco scapolo: non lasciatevelo sfuggire!

In breve. Una dissacrante rilettura del romanzo della Austen rende Pride and Prejudice* (*sort of) una delle commedie più brillanti che Londra abbia da offrire. Il solo Mr Bennet vale da solo il prezzo del biglietto.

★★★

sabato 6 novembre 2021

Jenna Russell a Cadogan Hall


Dopo quasi quarant'anni dal suo debutto sulle scene londinesi, Jenna Russell si è finalmente sentita pronta a tenere il suo primo concerto. Acclamata attrice e cantante, la Russell si è distinta per il suo vasto repertorio, che abbraccia tragedie di Shakespeare e Marlowe tanto quanto musical contemporanei di Jason Robert Brown e Jeanine Tesori, ma ad averla resa una beniamina del pubblico londinese sono le sue raffinatissime interpretazioni dell'opera di Stephen Sondheim. Fu proprio in un musical di Sondheim, Sunday in the Park with George, che fece il suo debutto a Broadway nel 2008 e ottenne una candidatura al Tony Award; l'anno prima aveva recitato nel musical a Londra, vincendo il Premio Laurence Olivier per la sua acclamata interpretazione del duplice ruolo di Dot e Marie. Noi l'avevamo vista cinque anni fa (!!!) in Grey Gardens, dove aveva regalato al pubblico una performance monumentale in un altro duplice ruolo, quello di Big e Little Edie. 

Visibilmente emozionata per questo debutto tardivo, Jenna si presenta sul palco con il suo atteggiamento alla mano da anti-diva, ma non lasciatevi ingannare: è davvero una star. Spigliata nei suoi aneddoti sullo show-business e la propria carriera, la cantante ripercorre i quattro decenni di attività sulle scene, cantando brani dai suoi primi successi (come "I Dreamed a Dream" da Les Misérables) e canzoni dalle sue ultime imprese (una bellissima "Another Winter in a Summer Town" da Grey Gardens, "Non Je Ne Regrette Rien" da Piaf). Alternando canzoni drammatiche ed altre più divertenti ("No Cocaine in Cancun", "Don't Jump Off The Roof, Dad"), la serata scorre piacevole in un'atmosfera intima che farebbe pensare più a un dopo cena tra amici che un concerto tenuto da vera e propria aristocrazia del West End.


Certo, come ogni prima volta anche questo concerto ha le sue pecche: come era successo durante lo spettacolo di Chita Rivera, anche questa volta l'acustica è piuttosto infelice, per non parlare di un percussionista un po' troppo irruento che avrebbe spesso ha coperto la voce della Russell. Il secondo tempo soffre anche di una scelta di canzoni non riuscitissima, ma la serata si risolleva gloriosamente nel finale, quando l'attrice ha cantanto due eccezionali versioni di "Children and Art" e "Losing My Mind" che le sono valse una standing ovation.  Certo, magari un duetto e un secondo encore non avrebbero guastato alla fine, ma queste due ore sono state comunque una splendida serata trascorsa con una grande artista e, se non altro, hanno riacceso la speranza di rivederla prestissimo a teatro.

★★★★

venerdì 5 novembre 2021

Giselle alla Royal Opera House


L'allestimento di Sir Peter Wright di Giselle, il balletto romantico per eccellenza, viene riproposto regolarmente a Covent Garden dal suo debutto nel 1985. Non è difficile capire il perché: la messa in scena elegante e tradizionale ci ricorda il motivo per cui Giselle è un classico, mentre le coreografie mettono in bella mostra non solo il talento dei ballerini principali, ma dell'intero corpo di ballo del Royal Ballet.

Giovedì 6 novembre la forosetta innamorata del principe è tornata a danzare alla Royal Opera House per la prima volta dopo il Covid e, per l'occasione, il ruolo della protagonista è stato interpretato ancora una volta da Natalia Osipova. Quando la ballerina russa danzò per la prima volta nella parte di Giselle nel 2014 la critica la osannò come una vera e propria rivelazione: a sette anni di distanza è chiaro che la Osipova verrà ricordata come una delle migliori – o, forse, la migliore – Giselle della sua generazione. Non è solo la sua tecnica impeccabile, forgiata al Bol'šoj, a rendere Osipova così memorabile nel ruolo della protagonista, ma la passione di cui investe il personaggio. La sua Giselle potrà anche essere una contadinella, ma brucia di una passione intensa con cui tinge ogni gesto e movenza. Ci si sente quasi a disagio a vederla accarezzare così voluttuosamente il mantello di Bathilde e i suoi sentimenti per Albrecht sono così evidenti e divoranti che neanche ci chiediamo perché si suicida per aver perso un uomo conosciuto mezz'ora prima. Tecnicamente perfetta, atletica e aggraziata, Osipova è impeccabile sia come contadina che come spirito e la scena della pazzia, così come le intense scene finali, valgono a sole il prezzo del biglietto.

Reece Clark e Natalia Osipova

Il cast intorno a lei, del resto, non è da meno. Il suo Albrecht è il primo solista gallese Reece Clark, con cui aveva già danzato prima del lockdown. Giselle conferma che la loro partnership è destinata a diventare un sodalizio artistico molto proficuo e i due in scena fanno scintille. Clark la eguaglia nella solidissima preparazione tecnica, anche se emotivamente non è ancora al suo livello. L'Albrecht di Clark è perfettamente riuscito come aristocratico arrogante e scanzonato nelle prime scene, ma il finale non riesce del tutto a raggiungere quel picco tragico di perdita e sofferenza che dovrebbe concludere il balletto. Però glielo si perdona volentieri ed è difficile ricordare che questo era il debutto di Clark nel ruolo. Nei ruoli da comprimari spiccano l'Hilarion di Lukas Bjørneboe Brændsrød e la Myrtha di Mayara Magri: il primo colpisce perché – per una buona volta – per grazie e bellezza il suo personaggio è un vero e proprio rivale di Albrecht, mentre la seconda (anche lei al suo debutto nella parte) è una regina delle Villi particolarmente eterea.

Federico Bonelli e Lauren Cuthbertson

Venerdì sera invece è andata in scena la replica numero 660 di questo allestimento, con i primi ballerini Luren Cuthberston e Federico Bonelli nei ruoli degli sfortunati amanti. La rappresentazione segna il ritorno a Covent Garden della Cuthberston dopo la nascita della figlia Peggy e per quanto rimpiazzare la Osipova possa essere una prospettiva spaventosa, la ballerina si fa onore. Fisicamente la Cuthbertson non ha le doti straordinarie della sua collega russa, ma rimane comunque una solidissima ballerina che si è spesso distinta per il suo grande talento recitativo e l'umanità di cui riveste i suoi personaggi. Se durante il primo atto non ha tante occasioni per brillare – che invece la Osipova è riuscita accuratamente a ritagliarsi – è nel secondo atto che la sua Giselle splende con più intensità. La sua Giselle non è solo molto ben riuscita da un punto di vista tecnico durante le estenuanti coreografie delle ultime scene, ma riesce ad incarnare profondamente lo spirito di sacrificio, la generosità e l'amore per il suo principe: la sua Giselle non è mai commovente come quando culla tra le proprie braccia lo stremato Albrecht. Il quarantatreenne Bonelli non sarà lontanissimo al ritiro, ma continua a dimostrarsi un ballerino eccezionale e un partner di rara sensibilità. Al contrario di Clark, Bonelli porta gravitas e pathos nelle scene finali e l'ultimo pas de deux commuove in un modo in cui la replica di giovedì non è riuscita. La trentina di Entrechat Six perfettamente riusciti ci ricorda inoltra che di tecnica e vigore ne ha ancora da vendere: Edward Watson (The Dante Project) si è appena ritirato e speriamo che Bonelli non lo raggiunga presto nel dare l'addio alle scene.

Il corpo di ballo


Venerdì sera Annette Buvoli ha sostituito all'ultimo momento Claire Calvert ne lruolo di Myrtha: anche per la Buvoli si tratta di un debutto, decisamente riuscitissimo. La sua regina della Villi non è soltanto eterea, ma ha anche quell'inflessibile durezza che alla Magri mancava. Nonostante il grande talento dei protagonisti, come spesso accade in Giselle, sono le Villi che rubano la scena: il corpo da ballo del Royal Ballet stupisce ancora una volta con una quarantina di ballerine che si muovono con grazia, precisione e perfetta sincronia. Se l'ultima cosa che vedono prima di annegare è il talento delle ballerine del Royal Ballet, allora le vittime delle Villi non si possono lamentare più di tanto.

In breve. Due diversi cast con le rispettive forze e debolezze fanno rivivere con successo il balletto romantico per definizione.

★★★★