lunedì 17 ottobre 2016

Ragtime al Charing Cross Theatre


Il Charing Cross Theatre è un piccolo teatro a due passi dalla stazione di Embarkment e quest'anno sta mettendo in scena versioni "da camera" di musical precedentemente noti per i loro allestimenti sontuosi. Dopo il grande successo ottenuto con il musical Titanic, il teatro ospita attualmente una nuova e originalissima produzione di Ragtime, il musical di Stephen Flaherty e Lynn Ahrens (gli autori della colonna sonora del cartone Anastasia) tratto dall'omonimo capolavoro di Edgar L. Doctorow.

Affresco monumentale dei primi del Novecento in America, Ragtime racconta le storie di numerosi personaggi: il rapporto tra Madre e Padre cambia e la donna è sempre più indipendente, Fratello Minore cerca disperatamente una causa in cui credere, il pianista di ragtime Coalhouse Walker Jr. cerca vendetta dopo l'omicidio per motivi razziali dell'amata Sarah, l'immigrato lituano Tateh vuole costruire un futuro migliore per la figlia, l'anarchica Emma Goldman si batte per i diritti dei lavoratori, la bellissima Evelyn Nesbit deve testimoniare nel processo del marito dopo che l'uomo ha sparato al suo ex amante, Houdini è in cerca di un'esperienza sovrannaturale. E mentre il mondo si avvicina inconsapevolmente alla Prima Guerra Mondiali, i nostri protagonisti dovranno vedersela con un mondo in cui le esigenze degli afroamericani, delle donne, degli immigrati e dei lavoratori non potranno più essere ignorate dalla classe dirigente.

Debuttato a Broadway nel 1998, la produzione originale di Ragtime si avvaleva di un cast di quasi 50 elementi e un'orchestra di quasi 30. Il Charing Cross Theatre propone un allestimento in chiave minore, con un cast di circa venti artisti che non solo recitano e cantano, ma suonano anche gli strumenti in scena. Il regista John Doyle ha lanciato nel 2004 questo nuovo concept, denominato actor-musician concept, con un'innovativa produzione di Sweeney Todd in cui gli attori che in una certa scena non stavano recitando o cantando accompagnavano i solisti al piano o con qualunque altro strumenti essi sapessero suonare. Questo nuovo stile ha avuto un certo successo negli Stati Uniti e rivaluta il ruolo dell'orchestra nel panorama delle rappresentazioni dal vivo: i musicisti non sono più relegati in un buco sotto il palco come voleva Wagner, ma sono parte integrante dell'azione e della narrazione. Gli interpreti devono essere quindi particolarmente talentuosi, perché devono recitare, cantare e suonare contemporaneamente. Sotto la sapiente regia di Thom Southerland (Grey Gardens), tutto fila liscio come olio e - anche se un po' dispiace non poter ascoltare la fantastica colonna sonora di Stephen Flaherty in tutta l'espressiva bellezza di un'orchestra al completo - questa produzione di Ragtime è una vera gemma. La scenografia di Tom Rogers e Toots Butcher è, come la regia, semplice e creativa e il risultato finale ci ricorda come le grandi idee funzionino meglio dei grandi budget.

Jenniver Saayen (Sarah Brown) e Ako Mitchell (Coalhouse Walker Jr.)

Il cast di attori-musicisti è versatile e talentuoso: Anita Louise Combe è una fantastica Madre, Jenniver Saayeng (Les Liaisons Dangereuses) è una Sarah dalla voce da brivido e Gary Tushaw è un Tateh incredibilmente commovente. Bravi anche Earl Carpenter (Padre), Jonathan Stewart (Fratello Minore) e Joanna Hikman (Evelyn). Nei panni di Coalhouse troviamo Ako Mitchell che, anche se non riesce a cantare la (difficilissima) parte come dovrebbe, riesce comunque a portare in scema un uomo sopraffatto dalle emozioni e da una sete di giustizia che sfocia in vendetta. Abbastanza deludente Valerie Cutko (Piaf) nei panni di Emma Goldman. E' difficile dire chi sia il personaggio principale di Ragtime, è un musical in stile Robert Altman in cui il vero protagonista è in realtà la comunità rappresentata nel suo insieme. Il cast avrà pure i suoi alti e bassi, ma i momenti corali sono da mozzare il fiato e il colpo d'occhio è eccezionale.

In breve. Stupenda versione da camera di un blockbuster del teatro di Broadway, diretto con stile e originalità per mostrare che anche con un budget ridotto si può portare la magia in scena.

★★★★½

Kenny Morgan all'Arcola Theatre


The Deep Blue Sea viene considerato il capolavoro del commediografo inglese Terence Rattigan (autore anche di Harlequinade) e nel 2011 è diventato un apprezzato film con Tom Hiddleston e Rachel Weisz. Rattigan concepì la trama del dramma quando gli fu comunicata la notizia del suicidio del suo giovane ex amante Kenneth Morgan. Kenny Morgan è come il drammaturgo Mike Poulton ha immaginato le ultime ore di vita del suicida e il risultato è uno stupefacente dramma in scena all'Arcola Theatre.

Londra, 1949. Il tentativo di suicido del trentenne Kenneth Morgan (ex attore allo sbando, ex amante di Terence Rattingan ed ex giovane di belle speranze) viene interrotto bruscamente quando un vicino di camera della pensione in cui vivono sente odore di gas. Kenneth viene curato e accudito dai premurosi vicini e in quello che si rivelerà essere l'ultimo giorno della sua vita riceve due visite importanti. La prima è proprio quella di Terry Rattigan, l'acclamato commediografo, che lo invita a tornare a vivere con lui; ma Kenny rifiuta, perché stanco di vivere con i patetici tentativi di Rattigan di nascondere anche agli amici più intimi la loro relazione. Il secondo è il ritorno a casa del lunatico fidanzato Alec, che dopo aver scoperto del tentativo di suicidio decide di lasciare Kenny. Ancora una volta solo e senza speranze, Kenneth tenta nuovamente il suicidio.

Splendidamente diretto da Lucy Bailey, Kenny Morgan è un dramma dal forte impatto emotivo. Tutti i piccoli passi che portano Kenny a compiere il gesto estremo sono mostrati con un'umanità che non nasconde l'aspetto fortemente drammatico della vicenda. Il rapporto tra Terry e Kenny e quello tra Alec e Kenny appaiono come i due estremi di uno spettro e nessuno dei due è particolarmente positivo. Tra un amante fagocitante e uno al limite della bipolarità, Kenny trova una momentanea ancora di salvezza solo nella "gentilezza degli estranei", nei vicini messi in allerta dall'odore del gas. L'ottimo testo di Mike Poulton è farcito di citazioni da The Deep Blue Sea, ma Kenny Morgan si erge fieramente sulle proprie gambe e lo spettatore che non conosce l'opera di Rattigan può apprezzarlo tanto quanto un suo profondo conoscitore.

Paul Keating e Pierro Niel-Mee

Certo, con le sue quasi tre ore uno potrebbe sostenere che il dramma è un po' troppo lungo e il primo atto in particolare è un po' troppo statico. Ma raramente mi sono trovato così coinvolto con un personaggio quanto lo sono stato con l'omonimo protagonista di questo nuovo dramma: negli ultimi istanti lo spettatore si scopre smanioso della speranza che qualcun altro entri nella camera di Kenny e lo salvi. L'ultimo momento è particolarmente potente: immersi del buio, gli spettatori non possono che ascoltare impotenti i profondi respiri di Kenny che, sdraiato di fronte alla stufa, inala il gas letale.

Paul Keating è un fenomenale Kenny e la sua performance è una di quelle straordinariamente dettagliate che rimangono impresse. Descrive magistralmente l'arco del personaggio e mette a nudo la propria anima come solo un grande interprete sa fare. Simon Dutton è forse un po' troppo affabile e paterno nel ruolo di Rattigan: è sicuramente un bravo attore, ma la sua performance non mette in mostra la debolezza e la vergogna del personaggio come dovrebbe. Pierro Niel-Mee è ottimo nel ruolo dell'instabile fidanzato Alec e la sua performance brutale e violenta si integra alla perfezione quella di Keating. Davvero superlativo anche George Irving nel ruolo di Mr. Ritter, l'uomo che salva Kenny la prima volta. E' un immigrato austriaco e, in quanto ebreo, il metodo di suicidio scelto da Kenny lo ha tubato profondamente: il discorso con cui cerca di convincere il protagonista a desistere dalle sue intenzioni è uno dei più toccanti del dramma. Brave anche Marlene Sidaway nel ruolo della padrona di casa e Lowenna Melrose nella parte dell'amante di Alec.

In breve. Splendidamente diretto e recitato, Kenny Morgan è un piccolo capolavoro dall'enorme impatto emotivo, un dramma toccante e un "must see" per gli amanti del teatro di passaggio a Londra.

★★★★½

sabato 15 ottobre 2016

The Go-Between all'Apollo Theatre


Chiude oggi all'Apollo Theatre di Londra una mosca bianca del West End, uno strano esperimento nel panorama del musical odierno. The Go-Between è un nuovo musical con musica e versi di Richard Taylor e libretto di David Wood, tratto da L'età incerta di L. P. Hartley.

L'anziano Leo è tormentato dai ricordi di un'estate della sua primissima adolescenza, un'estate trascorsa nella tenuta degli aristocratici Maudsley. Tutto prende una strana piega quando il suo amichetto Marcus si ammala e Leo rimane così solo nella casa della famiglia dell'amico e deve trovare un altro modo per occupare le proprie giornate. Si invaghisce di Marian, la sorella di Marcus, e la ragazza approfitta dell'infatuazione del ragazzino per farlo diventare il portatore dei messaggi segreti tra lei e il contadino Ted. L'amore tra i due è ostacolato dalle differenze di classe e sfocia in tragedia quando Lady Maudsley requisisce una lettera a Leo e coglie in flagrante la figlia e il contadino. Lo scandalo porta Ted al suicidio e per decenni questo fatto perseguita Leo, finché non decide di andare a trovare l'anziana Marian e di essere, per l'ultima volta, il portatore di un messaggio d'amore molto speciale.

Questo The Go-Between è davvero un'eccezione per gli standard del West End e, per fare un paragone con un musical recensito di recente, è l'anti-Kinky Boots. Nessun cambio di scena, costumi di una semplice eleganza, scenografia essenziale e allusiva, limitatissime coreografie e invece dell'orchestra c'è solo un pianoforte in scena. Circondato da musical commerciali come Mamma Mia! e Jersey Boys, The Go-Between è un inno al minimalismo, al principio di "less is more", un tentativo di riscoprire la qualità che a volte è soffocata alla quantità. Peccato però che la qualità dietro The Go-Between non sia di prim'ordine. La colonna sonora di Richard Taylor è piacevole, ma nulla di più, i versi sono un po' triti e qualunquisti (abbiamo ancora bisogno di una canzone sulle farfalle nel ventunesimo secolo? Ne siamo proprio sicuri?). Il libretto di David Wood cattura l'ineffabilità del mondo dei ricordi e la sua malinconia, ma quando bisogna affondare i denti sul soggetto a Wood cade la dentiera. Il momento climatico del secondo atto e (spoiler!) il suicidio di Ted avvengono così di sfuggita che uno spettatore che non ha mai letto il libro fa davvero fatica a rendersi conto di cosa sia successo. Il che è particolarmente grave quando il punto di partenza della storia è che Leo è ossessionato dal rimorso di quello che è successo. Wood toglie ossigeno alla sua stessa candela e il risultato finale è un po' delutente. 

Stuart Ward (Ted), Michael Crawford (Leo) e William Thompson (Leo da piccolo)

L'aspetto tecnico è decisamente migliore: i costumi e la scenografia di Michael Pavelka sono raffinati e suggestivi, le luci di Tim Lutkin danno al tutto un'atmosfera seppia da vecchia fotografia. La regia di Roger Haines fa il possibile con ciò che gli è stato dato e, anche se non è riuscito a infondere nuova linfa al musical, ha lavorato bene con i suoi interpreti. Michael Crawford, la grande star del West End, è eccellente nel ruolo dell'anziano e tormentato Leo. Certo, la voce è non è quella di vent'anni fa, ma la grande umanità che riversa nei suoi personaggi e i penetranti occhi azzurri non sono sfuggiti a nessuno nel teatro. La sempre deliziosa Gemma Sutton è superba e delicata nel ruolo di Maria e a lei è stato affidato il pezzo migliore della colonna sonora, Grow and Change, e lo interpreta alla perfezione. Bravo anche Stuart Ward nel ruolo di Ted e Archie Stevens in quello del piccolo Marcus. Un po' troppo sotto tono è il Leo adolescente di William Thompson (uno dei tre ragazzini che si alternano nel ruolo), che sparisce al confronto del ben più carismatico Marcus. Unica nota veramente stonata è la Lady Maudsley decisamente sopra le righe di Issy van Randwyck.

In breve. Allestimento raffinato e non privo di meriti di un musical che, pur non essendo particolarmente incisivo, costituisce una piacevole alternativa nel panorama musicale del West End. Da vedere per l'ottima performance del veterano Michael Crawford.

★★★½

venerdì 14 ottobre 2016

La Tempesta al King's Cross Theatre


Chi pensa che Shakespeare sia noioso deve fare i conti con Phyllida Lloyd, la fantastica regista che ha curato un nuovo allestimento di una trilogia shakespeariana (Enrico IV, Giulio Cesare, La Tempesta) con un cast tutto al femminile. Ma la Lloyd non si è limitata a cambiare i sessi, ha anche ambientato tutte e tre le opere in un carcere femminile, dando risvolti inattesi alle opere shakespeariane. Per ora sono andato solo a vedere La Tempesta, lo stupendo romance considerato dai più come l'addio di Shakespeare al teatro.

Prospero, il Duca di Milano, è stato vittima di un colpo di stato ad opere del fratello e del re di Napoli e si è trovato esiliato con la figlia in un'isola sperduta. Quindici anni dopo tutti i nemici di Prospero stanno navigando vicino all'isola ed il duca spodestato usa i suoi poteri magici e lo spiritello Ariel per scatenare una poderosa tempesta che li fa naufragare nel suo regno. Prospero ha in mente un piano di vendetta, ma presto le cose prenderanno una piega più positiva in questo dramma che sfugge a ogni definizione e ci parla dell'amore, della vecchiaia, dell'amicizia e del perdono.

Alcuni critici non molto rigorosi ritengono La Tempesta una critica al colonialismo, ma questo nuovo allestimento ci ricorda qualcos'altro: ci ricorda che anche Prospero è prigioniero, è la vittima di qualcuno. Un dettaglio che è facile dimenticare quando si vedono i piani dell'astuto stregone. Ma l'eccellente regia di Phyllida Lloyd non si lascia perdere questo dettaglio così succoso, anzi ne fa il punto forte del suo adattamento. Con musica, balli e grandi interpretazioni, questo adattamento della Tempesta è superiore a molti allestimenti della Royal Shakespeare Company e riesce a dare al testo una dimensione umana che molti registi perdono quando si parla di Shakespeare, sopraffatti dalla reverenza per il testo.

Grandi attrici hanno già interpretato Prospero, Vanessa Redgrave e Helen Mirren per citarne un paio, ma la consumata primadonna shakespeariana Harriet Walter porta il ruolo a un livello sfiorato da pochi colleghi di entrambi i sessi. Il suo Prospero è maternamente paterno e saggio, protettivo e irascibile con un Robinson Crusoe che ha passato troppo tempo in solitudine. Dame Walter ha tutto quello che serve a un attore che si cimenta con Shakespeare: parla in blank verse come se fosse la sua lingua materna, ha una profonda comprensione del testo e un carisma scenico più unico che raro. E' difficile staccarle gli occhi di dosso e il suo Prospero è un capolavoro di caratterizzazione e umanità. 

Dame Harriet Walter è Prospero

Il resto del cast è altrettanto buono, e tra tutti spicca l'Ariel di Jade Anouka: spumeggiante e ribelle, solca il palco come solo uno spirito riuscirebbe a fare... e che voce! Il resto dell'ottimo e multietnico cast comprende: Sheila Atim (Ferdinando), Jackie Clune (Stefano), Shiloh Coke (Alonso), Karen Dunbar (Trinculo), Zainab Hasan (Miranda), Jennifer Joseph (Antonio), Martina Laird (Sebastiano), Sophie Stanton (Calibano) e Carolina Valdés (Gonzago). Semplici ed efficaci i movimenti di Ann Yee e i costumi di Chloe Lamford, così come le luci di James Farncombe.

In breve. Impeccabile e originalissimo allestimento di un grande classico, stupendamente diretto e recitato. Se passate a Londra non potete perdervelo e se siete under 25 i biglietti sono gratis!

★★★★½

Shopping and Fucking al Lyric Hammersmith


Prostituzione minorile, sesso orale, anale e telefonico, dipendenza da droghe e capitalismo. Trovate l'intruso. Non lo vedete? Allora la pensate proprio come Mark Ravenhill, autore del controverso Shopping and Fucking. Debuttato al Royal Court Theatre nel 1996, Shopping and Fucking è considerato un capolavoro del cosiddetto in-yer-face theatre, un genere teatrale di breve fortuna negli anni '90 il cui scopo era scandalizzare il pubblico in ogni modo.

Il dramma non ha una trama lineare vera e propria, ma tra i deliranti scenari che ci presenta possiamo intravedere la storia di Mark, un uomo adulto che vive con i giovanissimi Robbie (di cui è amante) e Lulu (tossicodipendente). In cerca di sesso occasionale e di mancanza di legami affettivi, Mark incontra il quattordicenne Gary, un giovane marchettaro, che viene introdotto nel piccolo circolo di Mark. Robbie è geloso, Lulu anche e alla fine Mark esaudisce la fantasia di Gary e lo pugnala. Il tutto viene commentato da Brian, una figura divina a metà tra un venditore e un predicatore, che serafica ci avverte che finché riusciremo a far girare denaro nessun problema sarà davvero serio. 

Non fatevi spaventare da una trama così morbosa, in realtà Shopping and Fucking è molto divertente. Certo a tratti è un po' datato (ci sono cose che fanno terribilmente anni novanta), ma in altri punti è spaventosamente attuale. La regia di Sean Holmes è riuscita a fare quello che pochissimi registi fanno: offrire una rilettura autoironica di un testo non solidissimo in modo che, mettendo in ridicolo le sue stesse debolezze, le trasforma nei suoi punti di forza. Certo a volte la semiotica non va troppo per il sottile (il prezzo attaccato alle mutande degli attori per ricordarci che tutto è in vendita è un po' scontata...), ma Holmes serve allo spettatore un piatto deliziosamente metateatrale: gli attori sono ripresi dal vivo sul palco e le loro immagine vengono proiettate sullo sfondo, siparietti di karaoke, attori che vendono (letteralmente!) spille e merendine al pubblico e ballano con loro... La prima parte in particolare è talmente divertente che quando l'azione si trasforma in un baccanale nel senso più euripideo del termine lo spettatore rimane ancora più sconvolto. Questa produzione di Shopping and fucking è esilarante e disturbante come solo pochi revival sanno essere.

Alex Arnold è Robbie

Lo spettacolo vede in scena cinque attori di ottimo livello e tutti molto, molto disinibiti. La performance migliore è quella della Brian di Ashley McGuire, paterna e distruttiva allo stesso tempo, abile affabulatrice e drago sopito. Sam Spruell è un Mark viscido al punto giusto e molto valido soprattutto nelle sue scene con il tormentato Gary del bravo David Moorst. Completano il cast Alex Arnold e Sophie Wu, bravi nel portate in scena la fragilità di Robbie e Lulu.

In breve. Coinvolgente nuova messa in scena di uno spettacolo ancora attuale. Solo per stomaci forti!

The Entertainer al Garrick Theatre


Our revels now are ended, la stagione teatrale della Kenneth Branagh Theatre Company, inauguratasi lo scorso Novembre con il Racconto d'Inverno, è giunta al termine. E, per chiudere la stagione, Kenneth Branagh ha scelto di riproporre sulle scene londinesi il dramma di John Osborne che si rivelò un successo inaspettato per Laurence Olivier nel 1957. The Entertainer ci porta porta all'interno di casa Rice, dove la giovane Jean ritorna dopo aver lasciato il fidanzato per divergenze politiche. Qua ritrova il burbero nonno Billy e la querula matrigna Phoebe, il romantico fratello Frank e l'illuso padre Archie. Archie è una star di seconda categoria del varietà, irrimediabilmente donnaiolo, sessualmente ambiguo, evasore fiscale impenitente e un fallimento su tutti i fronti come padre, figlio, marito e artista. L'equilibrio delicato della famiglia Rice si spezza definitivamente quando il primogenito muore in guerra: la giovane amante lascia Archie e l'uomo rifiuta di trasferirsi in Canada con la moglie, dove la famiglia di lei ha trovato un ottimo lavoro per il cabarettista. Alla fine, dopo aver eseguito un ultimo numero, Archie è costretto a vedersela con l'agenzia delle entrate. 

In un certo senso The Entertainer ricorda un po' Morte di un commesso viaggiatore. Racconta la storia di uomo, un uomo sicuramente pieno di difetti, che nonostante tutto prova a dare il proprio contributo a quelli che gli stanno intorno. Eppure, Morte di un commesso viaggiatore resta un capolavoro senza tempo, una celebrazione della fatiche umane e la frustrazione di un sogno irrealizzabile. The Entertainer non riesce a lasciare niente di questo al pubblico, ma anzi lo soffoca con un primo atto interminabile e poi lo lascia basito con un finale affrettato e brusco. Il risultato finale è deludente come una bomba inesplosa, un dramma che promette e promette, ma non mantiene niente. Forse la colpa è del regista Rob Ashford, che non ha saputo dare una direzione al testo, valorizzare i suoi interpreti o fare riferimenti a una Gran Bretagna più attuale e post Brexit. O forse la colpa è solamente del testo, che per lo spettatore moderno risulta datato senza speranza. Per il pubblico degli anni '50, un pubblico con un fresco ricordo di guerre e bombardamenti, The Entertainer può aver sfiorato certe corde, ma oggi mi chiedo se questo testo abbia ancora qualcosa da dirci. John Osborne era uno dei giovani scrittori "arrabbiati" del dopoguerra, ma sembra che del suo furore oggi non siano rimaste neanche le braci. 



Certo, Kenneth Branagh è un consumato primo attore e il suo Archie è il giusto mix tra glorioso e repellente. Uomo di mondo e intrattenitore, con uno sconfinato repertorio di battute trite e ammiccamenti, non riesce bene a delineare il confine tra il palco e i salotto (colpa anche di Ashford, che ha trasformato i numeri di vaudeville in una sorta di psico-teatro nello stile del film Chicago, invece che lasciarli in scene separate come il testo vorrebbe). Forse a tratti c'è un po' troppo autocompiacimento, ma all'erede di Olivier lo si può anche concedere. Brava Greta Scacchi nel ruolo di Phoebe, piatta e monocorde Sophie McShera (Daisy di Downton Abbey) nella parte di Jean e veramente bravo Gawn Grainger nel ruolo del vecchio Billy. La performance più sentina e sincera è forse quella del giovane Jonah Hauer-King nel ruolo di Frank, il disilluso figlio di Archie. Per il resto, stupende scenografie di Christopher Oram, ottime luci di Neil Austin, simpatica musica dal vivo di Patrick Doyle e divertenti coreografie di Chris Bailey

In breve. Produzione elegante e ben recitata con un enorme buco al posto del cuore. Ha i suoi momenti, ma sembra essere irrimediabilmente datato.

Kinky Boots all'Adelphi Theatre



Finalmente tornato a Londra per il nuovo anno universitario! Ed esiste un modo migliore di festeggiare che un chiassoso musical vincitore del Tony Award al miglior nuovo musical? Kinky Boots, il musical tratto dall'omonimo film di Geoff Deane e Tim Firth, si è rivelato un acclamato successo sia a Broadway che a Londra, vincendo ogni premio possibile e l'amore incondizionato del pubblico. 

Con una colonna sonora di Cyndi Lauper e libretto di Harvey Fierstein, il musical racconta di Charlie Price, l'erede di una fallimentare fabbrica di scarpe da uomo, che dopo aver conosciuto l'esuberante drag queen Lola decide di dare nuova linfa agli affari creando un nuovo tipo di stivali sexy per drag queen... gli stivali da donna infatti non sono abbastanza robusti per reggere il peso di un uomo e gli eccentrici artisti si ritrovano spesso con i tacchi spezzati. Ma Charlie dovrà scontrarsi contro i pregiudizi della sua piccola città, le lamentele della storica fidanzata Nicola e la propria diffidenza nei confronti di questa clientela così sopra le righe... alla fine Charlie supera ogni pregiudizio e grazie a Lola e alle sue "girls" ottiene un successo strepitoso alla settimana della moda di Milano.

Kinky Boots è una commedia solare e spumeggiante che, senza andare troppo nel profondo, parla dell'accettare noi stessi e gli altri. La colonna sonora è divertente anche se non particolarmente memorabile e il libretto non riesce a delineare personaggi troppo precisi. Il primo atto è esilarante e coinvolgente, nel secondo la bidimensionalità del libretto porta a dei momenti di stasi e di una certa superficialità, che esplodono in un finale sopra le righe ma che per un musical come questo può anche andare bene. Il grosso limite del libretto di Fierstein è che riesce a far ridere ogni volta che vuole, ma quando prova ad essere profondo fallisce miseramente. Jerry Mitchell ha curato sia la regia che le coreografie e mentre la prima potrebbe essere un po' più incisiva, le seconde sono veramente favolose, soprattutto nelle scene di Lola e le "girls".

I tre protagonisti in una scena del musical

Davvero ottimo il cast, capitanato da uno strepitoso e inarrestabile Matt Henry nel ruolo di Lola. Molto bravi anche l'adorabile Charlie di David Hunter e l'esilarante Laureen (il nuovo interesse amoroso di Charlie) della debuttante Elena Skye. Ma tutto il cast è davvero di primo livello, con voci fantastiche e forti personalità.

In breve. Kinky Boots è uno spettacolo leggerissimo e divertente, ottimo anche per chi non ama i musical, con eccellenti coreografie e un cast di prim'ordine. Ideale per una serata piacevole in famiglia.

½