mercoledì 23 febbraio 2022

Tosca alla Royal Opera House


Tosca non è mai troppo lontana dal Covent Garden e dopo un paio di settimane in cartellone lo scorso dicembre il capolavoro pucciniano torna alla Royal Opera House per un'ultima manciata di repliche. L'allestimento – ormai storico, diretto da Jonathan Kent – segna anche il ritorno sulle scene londinesi di Angela Gheorghiu dopo quasi sei anni di assenza e la diva rumena torna in grande stile per celebrare i suoi trent'anni dall'esordio al Covent Garden. 

I suoi devoti fan erano ormai in astinenza dopo che la Gheorghiu aveva cancellato delle rappresentazioni nel 2018 e la accolgono festosamente appena mette piede in scena. Risulta però evidente che la voce non è più quella di un tempo: il registro acuto viene raggiunto solo con grande fatica, il vibrato è eccessivo, l'intonazione a tratti incerta. Considerando che negli ultimi anni il suo repertorio si è ridotto a non più di una mezza dozzina di ruoli, uno si aspetterebbe di più dalla sua Floria Tosca. Certo, sarebbe sciocco pensare che la voce possa essere la stessa del film del 2001, ma anche paragonandola al sua ultima Tosca londinese del 2016 il peggioramento c'è e si sente. Nel primo atto fatica a carburare, anche se una recitazione spumeggiante durante le scene di gelosia riesce comunque a divertire: il monito all'amante Cavaradossi "falle gli occhi neri" (riferito alla Madonna che sta dipingendo) è praticamente una minaccia e la sua Floria è quasi più temibile di Scarpia nella sua gelosia. Ache il secondo atto è sofferto e il suo Vissi d'arte fatica a librarsi fino al loggione: le "money notes" ci sono anche, ma con quanta fantica le raggiunge! Il terzo atto invece, pur non essendo mai stato il suo forte, risulta quello riuscito meglio: se non a livello canoro, la Gheorghiu eccelle nel mescolare l'istrionismo del primo atto e il dramma emotivo del secondo riuscendo a create una Tosca convincente e toccante per cui anche delle sporcature vocali riescono a diventare parti integranti della psicologia del personaggio. 

Angela Gheorghiu e Stefan Pop nel primo atto

La vera star della serata non è la Gheorghiu, bensì il suo connazionale Stefan Pop nei panni di Mario Cavaradossi. Se il suo "Recondita armonia" risulta un filo velato, il tenore rumeno si riprende in fretta e il suo ottimo Cavaradossi canta con ardore e voce squillante i suoi celebri "Vittoria" del secondo atto. Nel terzo invece regala il numero più applaudito della serata con un "E lucevan le stelle" con cui ha datto sfoggio a un ottimo timbro e tecnica, nonché notevoli capacità recitative e grande introspezione. Il terzo atto  – e, in particulare, il suo inizio – sono forse i momenti migliori dell'intera rappresentazione: la regia di Kent si libera dalle scenografie barocche e opulenti per portarci in cima a Castel Sant'Angelo, in cui un soldato si lava mentre sorge il sole. Con questa scena di purificazione accompagnata dal canto di un bambino, Puccini e Kent voltano pagina e insieme ci riportano a una dimensione più umana e in scala minore rispetto al pathos del secondo atto. L'aria di Cavaradossi, così attenta alle piccole cose ma anche musicalmente possente, segna il passaggio dalla prima alla seconda parte dell'atto e sia Kent che Pop catturano meravigliosamente il momento, rendendolo il culmine emotivo della serata.

Michael Volle ed Angela Gheorghiu nel secondo atto

Quando dico che il terzo atto è stato il migliore non voglio certo fare torto al bravo Scarpia di Michael Volle, che usa il suo potente timbro baritonale per costruire un personaggio particolarmente memorabile e ben realizzato. Il suo barone non è l'orco o il cattivo da film d'animazione messo in scena da certi cantanti, bensì un uomo potente e non privo di fascino che usa le ottime dosi recitative e canore per portare in scena un personaggio che sembra uscito dalle pagine dei giornali degli ultimi anni. Ottime anche le voci di Aled Hall, Chuma Sijeqa e Alexander Köpeczi che completano il cast nei ruoli di Spoletta, Angelotti e del sagrestano. Marco Armiliato conduce l'orchestra con più foga che raffinatezza, ma il risultato finale è comunque avvincente.

In breve. Angela Gheorghiu delude un po', ma la Tosca di Jonathan Kent rimane un emozionante spettacolo per gli occhi e per le orecchie.

★★★½

venerdì 17 dicembre 2021

Spring Awakening all'Almeida Theatre


Al suo debutto a Broadway nel 2006 Spring Awakening si rivelò un trionfo da oltre ottocento rappresentazioni e otto Tony Award. Il successo sull'altra sponda dell'Atlantico sembrava fuori discussione e invece la prima londinese del musical, apprezzato e premiato dalla critica, si rivelò un clamoroso fiasco al botteghino e rimase in cartellone al Novello Theatre solo per un paio di mesi. A distanza di oltre dieci anni, Spring Awakening ritorna sulle scene londinesi in un un nuovo allestimento diretto da Rupert Goold (Judy). 

Tratto dal Risveglio di primavera di Frank Wedekind e riadattato in chiave musicale da Duncan Sheik (musiche) e Steven Sater (libretto), Spring Awakening racconta del risveglio sessuale di un gruppo di adolescenti nella Germania del tardo diciannovesimo secolo. Tra di loro c'è il timido Moritz, uno studente poco dotato, tiranneggiato dal padre e grande amico di Melchior Gabor, il James Dean della situazione. Completamenti ignoranti in materia di educazione sessuale ed inconsapevoli del cambiamento che il loro corpo sta attraversando, gli adolescenti vivono questo momento in modo tormentato, con la complicità di un sistema scolastico che è più punitivo che istruttivo. È in questo contesto di ignoranza e repressione che Melchior e Wendla scoprono il sesso, con risultati che si riveleranno essere devastanti.

Stuart Thompson, Amara Okereke e Laurie Kynaston

Per quanto il sesso in tutte le sue eccezioni non sia più il tabù che era ai tempi di Wedekind, c'è sicuramente qualcosa di intrigante e innovativo nel modo in cui Spring Awakening affronta la tematica del risveglio sessuale degli adolescenti. Il tema è infatti stranamente attuale: internet fornisce a giovani e giovanissimi fin troppe informazioni riguardo al sesso, mentre la scuola svolge ancora un ruolo troppo marginale in questo settore e in Italia aspettiamo ancora il giorno – destre e cattolici permettendo – in cui gli adolescenti potranno seguire dei seri percorsi di educazione sessuale invece di imparare tutto precocemente e male sul loro smartphone. Quando Melchior, il più maturo dei suoi coetanei, scrive un saggio illustrato sul sesso per l'amico Moritz mette in moto degli avvenimenti che finiranno per rovinargli la vita; quando Wendla rimane incinta la madre la accusa ferocemente, senza però rendersi conto di non averle mai dato le informazioni o le spiegazioni che avrebbero potuto impedirlo. 


Il j'accuse di Wedekind – e di Sater e di Sheik – rimane quindi tristemente attuale nell'evidenziare l'ipocrisia di quel perbenismo che critica le persone a cui si è rifiutato di insegnare a fare meglio. Nella visione di Goold gli adulti – tutti splendidamente interpretati da Catherine Cusack e Mark Lockyer – sono spesso delle figure grottesche, dei cattivi da cartone animato che sono incapaci di vedere l'umanità nei giovani che sono stati affidati alle loro cure. La scenografia di Miriam Buether, semplice e funzionale, è una scala che occupa tutto il palco, ma non c'è salvezza nell'ascesa: la fuga è impossibile ed è solo nella scena in cui Melchior si trova in riformatorio che ci rendiamo conto che in realtà sono tutti in prigione dall'inizio. Bellissimi i costumi di Nicky Gillibrand, una vera e propria "variazione sul tema" della divisa scolastica. Sono forse troppo belli: eccentrici e glamour, questi costumi vanno un po' ad infrangere questo tema dell'oppressione/repressione, che invece sarebbe stato sottolineato meglio da una divisa scolastica comune. Ogni personaggio ha un costume diverso che ne sottolinea la personalità – Moritz ad esempio sembra quasi sfoggiare un accenno di gonna che potrebbe suggerire che il personaggio è di genere non-binario – ma tuta questa bellezza scalfisce un po' troppo l'omologazione sociale a cui la scuola ambisce. Sembrano allievi dell'Accademia de Le terrificanti avventure di Sabrina più che adolescenti a cui il sistema abbia tarpato le ali.

Laurie Kynaston è Melchior Gabor

Il cast, giovanissimo e di ottimo livello, è capitanato da Laurie Kynaston (Melchior), Amara Okereke (Wendla) e Stuart Thompson (Mortiz), tutti e tre impegnati in interpretazioni di grande sensibilità e impatto emotivo. Se la voce di Okereke, così come di tutte le altre ragazze, è sempre un gradino superiore a quelle dei maschi, Kynaston e Thompson compensano con una recitazione superlativa. Thompson spezza il cuore nel ruolo dell'incompreso Moritz, mentre Kynaston ritaglia una figura romantica e tormentata nei panni del protagonista Melchior. Brillano nei ruoli minori la Martha di Bella MacLean e la Ilse di Carly-Sophia Davies, entrambe splendidamente cantante, mentre tra i ragazzi primeggia il carismatico Hanschen di Nathan Armarkwei-Laryea.

Nathan Armarkwei-Laryea e Zheng Xi Yong


Il libretto di Sater non è spettacolare e l'autore si conferma ottimo paroliere ma mediocre drammaturgo. La colonna sonora di Sheik, invece, è splendida, anche troppo: alcune canzoni sembrano essere nella partitura più per la loro bellezza che per la loro rilevanza. Lo stesso Sheik, insieme a Simon Hale, ha rimesso mano agli arrangiamenti con ottimi risultati: Spring Awakening non è più rock come un tempo, ma ha acquistato una sfumatura pop che ben si addice sia alla colonna sonora che alla storia. Goold prova a trasformare il musical in un dramma tagliando gli spazi per gli applausi dopo le canzoni, ma al pubblico non interessa e applaude fragorosamente dopo i momenti migliori. Tra essi spicca Totally Fucked, che non è più un momento di gloriosa ribellione, ma un'esplosione musicale che termina in sordina con il ripetersi ossessivo di un "bla bla bla": non c'è vittoria contro una società del genere e anche l'ardore della gioventù finisce per annegare nel brusio.

In breve. Mentre Broadway celebra il quindicesimo anniversario di Spring Awakening, Londra riprone il musical in un nuovo ed elettrizzante allestimento che, sicuramente, avrà più successo dell'originale.

★★★★

domenica 12 dicembre 2021

Cabaret al Kit Kat Club


Dopo quasi due anni il Playhouse Theatre ha riaperto i battenti. Molti di noi sono cambiati durante la pandemia: c’è chi ha messo su peso, chi ha cambiato professione, chi si è laureato, chi ha scoperto un nuovo hobby o trovato l’amore. Il Playhouse Theatre invece è diventato un club berlinese degli anni trenta. Il musical Cabaret torna infatti sulle scene londinesi dopo diverse stagioni e così anche Eddie Redmayne, l’attore premio Oscar che non recitava a teatro da oltre dieci anni. Per questo duplice ritorno non si è badato a spese e il Playhouse è stato completamente ristrutturato e trasformato nel Kit Kat Club: non più un classico teatro con il palco incastonato nel proscenio, ma una sala dalla capacità ridotta a 550 spettatori con uno spazio scenico al centro circondato dal pubblico su quattro lati. Cabaret al Kit Kat Club non è solo un musical, ma un’esperienza: non si entra più nel foyer, ma da quella che era l’ingresso per gli artisti e il pubblico cammina lungo uno stretto cunicolo per emergere in un bar in cui comparse si aggirano tra gli spettatori. Prima ancora dell’inizio dello show, il pubblico è trascinato nella Germania degli anni trenta da instancabili ballerini (un po’ troppo moderni per essere d’epoca) che aiutano a creare un’aura di studiata sregolatezza. 

Cabaret debuttò a Broadway cinquantacinque anni fa, il glorioso prodotto di una fenomenale collaborazione tra il librettista Joe Masteroff, il paroliere Fred Ebb, il compositore John Kander e il regista Harold Prince. Sei anni più tardi divenne un successo mondiale quando Bob Fosse diresse l’omonimo adattamento cinematografico che consacrò definitivamente Liza Minnelli e si aggiudicò una mezza dozzina di premi Oscar. Tuttavia il musical, tratto dallo splendido Addio a Berlino di Christopher Isherwood, subì diversi rimaneggiamenti da parte di Fosse, tanto da essere a mala pena riconosciuto dagli autori alla prima del film. Al contrario della pellicola, che dà forma e struttura alla storia, il musical Cabaret è per sua natura episodico, una serie di vignette in cui le vite dei protagonisti sono intervallate alle sfrenate e decadenti esibizioni nel locale di cabaret. Lo scrittore americano Cliff arriva nella Berlino negli anni 30 e conosce Sally Bowles nello squallido Kit Kat Club, il locale in cui la donna si esibisce. Sally, una delle più grandi creazioni del teatro musicale, è una ragazza britannica con poco talento ma il grande sogno di sfondare come cantante. Cliff e Sally si mettono insieme e vivono felicemente nella pensione di Fräulein Schneider, che intanto si è fidanzata con Herr Schultz, un fruttivendolo ebreo. Ma l’ascesa del regime nazista costringerà tutti i personaggi a rivedere le loro relazioni e fare scelte da cui non si torna indietro. 



Un vero e proprio concept musical, Cabaret darebbe filo da torcere a qualunque regista: la trama non è lineare e qualunque interprete dello show deve capire come rendere i numeri del Kit Kat Club. Nella produzione originale, Harold Prince li usava come commento politico e sociale, un vero e proprio barometro che segnava l’aumentare della pressione del nazismo sulla Germania: il grande specchio che faceva da sfondo al palco serviva a ricordare al pubblico che osservare in silenzio equivale ad essere complici e per capire come mai il nazifascismo è riuscito a fare quel che ha fatto basta semplicemente guardarsi in faccia. Rebecca Frecknall è un'ottima regista e qualche anno fa ha diretto una delle cose migliori che abbia mai visto a teatro, uno splendido allestimento di Estate e fumo di Tennessee Williams. Cabaret è il suo primo musical e a tratti si ha l'impressione che abbia fatto il passo più lungo della gamba. Sia chiaro, questo Cabaret non è affatto diretto male e solo una regista di primissimo ordine saprebbe tirare fuori da tutto il cast performance di questo livello. Ma alcuni numeri musicali, soprattutto quelli metateatrali, mancano un po' di coerenza e più che scegliere una chiave di lettura, la Frecknall sembra approcciare ogni diverso numero del Kit Kat Club come una serie di singole unità indipendenti. Questo è particolarmente evidente nel primo atto, che ci mette un po' a carburare: il momento in cui Cabaret comincia a funziare è circa una ventina di minuti dall'inizio, quando Sally si trasferisce da Cliff. I primi numeri musicali sono energici e vivaci, ma mancano di una visione generale: il numero d'apertura Willkommen e le prime due canzoni di Sally (Mein Herr e Don't Tell Mama) sembrano un pochino sprecate nel loro stato attuale, nonostante le ottime prove d'attore che le accompagnano. Fortunatamente è un disagio solo temporaneo e dopo un inizio incerto il musical acquista velocità e, in particolare, il secondo atto scorre rapido e diventa di scena in scena sempre più agghiacciante.

Eddie Redmayne è il Maestro di Cerimonie

Ma al di là dell'idea di trasformare tutto il teatro in un locale d'epoca, il punto di forza di questo Cabaret è il cast. Eddie Redmayne e Jessie Buckley regalano due interpretazioni intense ed indimenticabili nei due ruoli principali: il primo è fatuo e inafferrabile, la seconda una protagonista di incommensurabile umanità, tragicamente ancorata al suolo nonostante le sue aspirazioni. Redmayne, con tutto il suo carisma, bella voce e sensualità, soffre di più per la mancanza di una direzione precisa data dalla regia: il suo personaggio, l'ineffabile Maestro delle Cerimonie, è un narratore e un cerimoniere, un personaggio che forse è più che altro una maschera. Come per le streghe del Macbeth, è nel Maestro delle Cerimonie che troviamo la misura e la chiave di lettura di una qualunque messa in scena di Cabaret e per questo Redmayne è a tratti svantaggiato dalla mancanza di visione di insieme. Il suo MC cambia quasi di scena in scena in una performance di grande effetto e fisicità, ma forse che avrebbe bisogno di essere un po' più ancorata su qualcosa – qualunque cosa. Quello dell'MC è stato il ruolo dei sogni dell'attore da quando lo aveva interpretato da adolescente ad Eton e l'intero allestimento è frutto del suo desiderio di interpretare nuovamente la parte. Fortunatamente questo Cabaret non è un vanity project, ma la prova che anche a distanza di decenni i sogno possono avverarsi. In alcune movenze contorte possiamo quasi rivedere il suo Stephen Hawkins, mentre in altre scene gronda di sensualità e carisma. Se il suo Two Ladies è esilarante, i suoi Money e Tomorrow Belongs to Me cominciano finalmente a far emergere il fil rouge del revival, il senso di omologazione che portò alla rovina un'intera nazionale – e un intero continente. Nel secondo atto vediamo la sua metamorfosi da folletto spiritato a formica nel grande formicaio nazista: dopo la prima canzone, un eccezionale If You Could See Her che termina con una battuta che gela il sangue, il personaggio perde i suoi costumi stravaganti (bellissimi, disegnati da Tom Scutt) per essere avvolto in un grigiore hitleriano, finendo anche per imitare la parlata del führer nelle battute finali. 

Jessie Buckley è Sally Bowles

Jessie Buckley non è da meno e la sua Sally è una delle migliori interpretazioni che si possa vedere in un musical da diversi anni a questa parte. Chi è Sally Bowles? Una ragazza inglese viziata che si trasferisce a Berlino per diventare una star – e lo diventa, ma solo in un sordido club. Non legge i giornali, non parla di politica, non sa niente del nazismo. Lei canta, balla, rifiuta di essere qualunque cosa tranne che se stessa e non lascia che niente e nessuno si metta tra lei e le suoi illusioni. Ricorda moltissimo la Holly Golightly di Capote, un personaggio effettivamente ispirato a quello di Isherwood, ma non è certo la Holly di Audrey Hepburn: c'è qualcosa di ferale in lei, un desiderio di proteggere con le unghie e con i denti un sogno che in fondo sa che non si realizzerà. È questa natura ammaliante e selvatica che rende la Sally della Buckley una performance così ben riuscita, quel suo essere sempre in equilibrio come una sonnambula a cui il risveglio potrebbe essere fatale. Affronta i suoi numero di apertura con ferocia, ma rinfodera gli artigli e comincia a fare le fusa quando convince Cliff ad accoglierla nella sua camera e nel suo cuore, con una Pretty Marvellous in cui la si riconosce come una consumata attrice teatrale. Il sogno di un affetto, una famiglia e una stabilità non riescono a non toccarla – anche se solo fugacemente – e l'attrice canta una toccante Maybe This Time più a se stessa che al pubblico. Nelle sue mani esperte la sua ultima canzone, la straordinaria Cabaret, diventa un inno all'autodistruzione: peccato solo che la messa in scena in the round la costringa a girarsi ogni pochi secondi, rovinando così la naturalezza della scena. Resta comunque il fatto che quella della Buckley sia una grandissima interpretazione e speriamo che il cinema non la porti via delle scene a lungo.

Liza Sadovy è Fräulein Schneider

Se Redmayne e Buckley sono la mente e il braccio di Cabaret, il cuore dello spettacolo sta nei suoi due personaggi minori: l'affittacamere Fräulein Schneider e il fruttivendolo Herr Schultz. La prima è interpretata magistralmente da Liza Sadovy, che entra timidamente dopo le due star internazionali che fanno da protagoniste allo show ma ne esce come la vera vincitrice della serata. La Sadovy regala un'interpretazione che racchiude lo spirito di un Paese: la sua Schneider è una donna che è sopravvissuta a tutto (come ci ricorda in So What?) e si rende conto che l'immobilità e l'inazione la preserveranno – o almeno così spera – anche dal nazismo. La sua What Would You Do?, in cui rinuncia a sposare l'ebreo di cui è innamorata, è il vero cuore della serata, la chiave di lettura che possiamo usare per leggere tutto l'allestimento: la Frecknall, al contrario di Sam Mendes o Rufus Norris, non ci porta nei lager nazisti, ma si ferma a ciò che avvenuto prima, l'omologazione di un intera nazione in un ideale in cui si è riconosciuta o ha finto di riconoscersi per amor del quieto vivere. Nel ruolo di Herr Schultz troviamo un ottimo Elliot Levy, con cui la Savoy forma una coppia perfetta: i due sono toccanti ed esilaranti nel duetto It Wouldn't Please Me More, in cui flirtano goffamente intorno a un ananas, e Married, che dona una toccante vignetta di una vita coniugale che non si realizzerà mai. Ed anche Levy ci offre con modestia un'altra chiave di lettura: il suo Herr Schultz si rifiuta di emigrare perché si ritiene un tedesco a tutti gli effetti e si illude di conoscere il proprio Paese.

Kichael Stewart (Herr Ludwig) ed Elliot Levi (Herr Schultz)

L'americano Cliff, reso celebre da Michael York nel film, è interpretato da Omari Douglas, recentemente reso noto da It's a Sin. Tutte le persone che ho sentito lo ritengono l'anello debole del cast, ma a me è piaciuto tantissimo. Nel corso degli anni e delle messe in scena, il personaggio di Cliff è diventato sempre più apertamente bisessuale, ma per molti versi Douglas è più credibile come un Cliff omosessuale. Molti si lamentano che nella sua performance manchi assolutamente qualunque senso di attrazione nei confronti di Sally: i due non funzionano mai come coppia. Effettivamente è vero, quando Sally annuncia di essere incinta si stenta a credere che Cliff possa essere il padre. Ma Douglas, forse neanche senza volerlo, trasforma questo "limite" in un punto di forza: la loro relazione è così impossibile, così evidentemente votata al fallimento, che il suo disperato tentativo di tenerla insieme spezza veramente il cuore. Perché il pubblico sa, così come Sally, che la loro relazione non potrebbe mai funzionare. Cliff fa poco in scena, il suo è forse il personaggio meno interessante. Ma Douglass lo rende così profondamente umano che per una volta riusciamo a ricordarci che in fondo Cabaret ha tre protagonisti. Nei ruoli minori di Fräulein Kost ed Herr Ludwing spiccano Anna-Jane Casey e Michael Stewart (Fiddler on the Roof). La Casey era finita sui giornali durante i lockdown perché in piena pandemia si era dovuta reinventare come rider per Deliveroo: è splendido rivederla in scena e apprezzare ancora una volta la sua voce potente, il suo carisma e il suo grande talento nella danza.

Omari Douglass (Cliff) e Jessie Buckley (Sally)

Molto bravi anche i ballerini e le ballerine che completano il cast, così come ottime sono le coreografie di Julia Cheng e le scenografie del già citato Tom Scutt. Molto buona anche la direzione musicale di Jennifer Whyte, che dirige con destrezza l'ottima band dal vivo. Le produzioni immersive come questa tendono sempre a suscitare grande interesse nel pubblico, anche se spesso sono dei veri e propri specchietti per le allodole. Tutta l'atmosfera pre-spettacolo del Kit Kat Club risulta un po' troppo artificiosa e contemporanea – per non parlare che i tavolini intorno al palco in cui gli spettatori si siedono per diventare veri e propri avventori del locale anni 30 hanno sollevato importanti questioni su quanto cari possano essere i biglietti per il teatro. Se alcuni degli sforzi usati per preparare questa Disneyland berlinese fossero stati diretti al musical di per sé sono sicuro che gli elementi che claudicano un po' avrebbero potuto essere sistemati entro la sera prima. Ma del resto la Frecknall si è trovata in una brutta posizione: dirigere due star internazionali non è facile, soprattutto quando il regista (o la regista) in questione non si avvicina lontanamente a loro in termini di riconoscimento e fama. Si ha a tratti l'impressione che alcune scelte avrebbero potuto essere più precise e puntuali: questo Cabaret è molto, molto buono ma a tratti si avverte che la mano che tiene le redini non è fermissima. A marzo Redmayne e la Buckley lasceranno il cast e sono sicuro che visto le spese affrontate per trasformare il teatro, i produttori cercheranno altre due star con cui rimpiazzarli. Il Cabaret diretto a Broadway da Sam Mendes andò avanti così per sei anni, rimpiazzando i protagonisti ogni pochi mesi con delle star del cinema, del teatro e della televisione. Mi auguro che questo Cabaret possa avere altrettanto successo, soprattutto se al momento in cui i due protagonisti passeranno il testimone la regia riuscirà ad aggiustare un po' il tiro e rendere questo potente allestimento un vero e proprio capolavoro.

In breve. Questo intenso revival vi trascinerà nella Berlino degli anni trenta grazie alla sua messa in scena coinvolgente e un cast di raro talento.


★★★★

lunedì 29 novembre 2021

The Prince of Egypt al Dominion Theatre

Da quando la Disney adattò La bella e la bestia per le scene nel 1994 diversi altri produttori teatrali hanno intravisto le possibilità di trasformare film d'animazione in musical teatrali. È una scelta rischiosa, ma per un produttore i vantaggi sono molteplici: il titolo da solo attirerà famiglie con bambini, la colonna sonora è spesso ben collaudata (e non di rado premiata con un Oscar o due) e, al contrario di molti altri musical, non c'è bisogno di una celebrità nel cast per assicurarsi buoni incassi. La Disney ha ovviamente riscosso grandi successi con questo metodo: basti pensare che Il re leone è in scena contemporaneamente a Londra e Broadway da oltre due decenni. Se è vero che questo tipo di musical praticamente non ha bisogno di pubblicità, i rischi sono comunque elevati e se l'esperienza a teatro non riesce a ricreare la magia del film la delusione del pubblico può portare a veri e propri fiaschi al botteghino. Se The Lion King è e resta un successo è grazie non solo alla bellissima colonna sonora di Elton John, ma soprattutto alla visionaria regia di Julie Taymor. Altri musical non sono stati altrettanto ben riusciti e la Disney non ha ottenuto quanto sperato con Frozen o Tarzan a Broadway.

L'adattamento teatrale di film d'animazione non è più esclusivamente in appannaggio della Disney, come ci dimostra questo The Prince of Egypt in scena al Dominion Theatre fino a gennaio. Il musical è tratto dall'omonimo film del 1998, un vero gioiello del cinema d'animazione con una meravigliosa colonna sonora firmata da Stephen Schwartz, che comprende anche la canzone premio Oscar "When You Belive". Quello che ci ritroviamo davanti a teatro, tuttavia, non è un colossal biblico, ma una parabola sui rischi del nepotismo nelle arti. La regia di Scott Schwartz, il figlio dell'autore, commette tutti gli errori da manuale, ossia cercare di ricreare l'esperienza del film senza reinventarla per una diversa forma d'arte. Laddove la Taylor inventò un nuovo linguaggio stilistico e visivo per ricreare la savana del Re Leone, Schwartz Jr ci propina una cafonata con effetti speciali da luna park, orrende coreografie e un libretto gonfio come un cadavere rimasto per giorni nell'acqua. Mentre il film originale era elegante e diretto, il musical allunga a dismisura il brodo fino a farlo durare quasi tre ore. Le canzoni originali di Schwartz père sono bellissime: Deliver Us è un numero d'apertura da brivido e ottime sono anche Through Heaven's Eyes e l'attesissima When You Believe. Il compositore ha scritto un'altra dozzina di canzoni per il musical, ma nessuna ha la bellezza e l'impatto di quelle composte oltre vent'anni fa per il film: sono banali e ripetitive, ma questo Schwartz lo sa e per compensare ci fa ascoltare "When You Believe" una mezza dozzina di volte durante il secondo atto.

Il finale del primo atto

Anche il libretto è stato rimaneggiato con l'intenzione di rendere sia Mosé che Ramses più umani: il primo è pieno di dubbi per la missione assegnatagli da Dio, mentre il secondo alla fine vede la luce e si riappafica con il vecchio amico. Sono scelte interessanti che in mano a un team creativo migliore avrebbero potuto dare ben altri risultati, ma qui servono solo ad allungare una serata che è già di per sé interminabile. Il cast non è male: Luke Brady è un Mosé piacevole ed emotivo, il Ramses di Liam Tamne è affascinante e cantato molto bene, mentre nelle (più piccole) parti femminili troviamo la bella Sefora di Christine Allado (che canta benissimo, ma viene mortificata da una coreografia imbarazzante) e la Miriam di Alexia Khadime, che canta divinamente ma troppo poco. Davvero ottimo il Getro del veterano del West End Clive Rowe, che riesce a cavare il proverbiale sangue dalla rapa grazie al vivace "Through Heaven's Eyes".

Luke Brady e Christine Allado

Come accennavo, The Prince of Egypt chiuderà i battenti a Londra tra un paio di mesi dopo una storia di rappresentazioni travagliate. Poche settimane dopo la prima il teatro fu chiuso a causa del Covid, per poi riaprire solo tre mesi fa. Il musical è stato a lungo uno dei pochissimi spettacoli che si potessero vedere in una Londra semideserta per la pandemia, ma nemmeno la mancanza di alternative è riuscita a far innamorare il pubblico. Biglietti per le prime file a sole 25£ sono facili da acquistare anche un paio d'ore prima dell'inizio dello spettacolo e The Prince of Egypt finge di mantenere in vigore il distanziamento sociale per evitare di ammettere che la platea è mezza vuota. Mi dispiace per il bravo cast, che sicuramente meritava di meglio, ma se passata per Londra e avete una serata libera potere tranquillamente restare in camera e vedere Il principe d'Egitto sul vostro portatile: risparmierete soldi e delusioni.

In breve. Una regia maldestra rovina uno dei film d'animazione più amati in una riduzione teatrale da dimenticare.

domenica 28 novembre 2021

Stephen Sondheim

Venerdì è morto Stephen Sondheim. È morto serenamente, all'improvviso, nella sua casa nel Connecticut, un giorno dopo aver celebrato il Ringraziamento con amici. Aveva novantuno anni. Tantissimo è stato scritto e detto su Sondheim e moltissimo altro verrà scritto e detto nei giorni, nelle settimane e negli anni che verranno. Reperire informazioni non è certo difficile, bastano pochi click per leggere della sua reputazione, del suo status nel pantheon del teatro musicale, i suoi premi, i suoi lavori. E si potrebbe dire ancora di più di come Sondheim abbia ereditato la tradizione di Rodgers & Hammerstein e portato avanti il loro lavoro, rendendo così il genere del musical non uno di solo intrattenimento, ma mostrando anzi come esso potesse essere sfruttato per affrontare tematiche profonde in modo non inferiore a quello del teatro di prosa. La bellezza delle sue musiche, la versatilità del suo ingegno e l'intelligenza dei suoi testi lo hanno reso un'icona cultura americana, un modello e un'ispirazione per generazioni di compositori a venire. Chi di voi ha già visto Tick, Tick... Boom! su Netflix sa di cosa parlo. Sondheim non fu solo un grande uomo di teatro, un grande compositore, un grande paroliere, ma anche un grande mentore. La sua generosità e la sua passione per l'insegnamento hanno aiutato la comunità di Broadway in modi che non possiamo nemmeno comprendere del tutto. Le grandi rivoluzioni musicali, da Rent a Hamilton, hanno avuto dietro il suo zampino, visto che Sondheim è stato il mentore sia di Jonathan Larson che Lin-Manuel Miranda.

Altri hanno scritto con maggior competenza dell'impatto di Sondheim sul teatro musicale, io vorrei solo parlare del suo impatto sulla mia vita. È strano da dire, ma non ricordo esattamente quando conobbi e mi innamorai della sua musica. Sicuramente quando cominciai il mio inglese era troppo incerto per apprezzare a pieno l'intelligenza dei tuoi testi, ma sentivo che Sondheim mi parlava, catturava idee e sentimenti che credevo fossero solo miei. Penso di aver cominciato ad ascoltare Sondheim all'inizio delle superiori, intorno al 2009. Avevo visto il film di Tim Burton Sweeney Todd e mentre cercavo di scaricare (illegalmente!) la colonna sonora trovai invece l'incisione discografica del musical con il cast originale di Broadway, capitanato dalla gloriosa Angela Lansbury. Mia madre è una grande appassionata di Jessica Fletcher, quindi sapevo chi fosse la Lansbury, ma non sapevo che cantasse. Incuriosito, cominciai ad ascoltare e non smisi mai di farlo. Dato che il film era sottotitolato, sapevo di cosa parlassero le canzoni e dopo aver ascoltato il Broadway Cast Recording non tornai più alla colonna sonora del film: le interpretazioni di Angela Lansbury, Len Cariou, Victor Garber e del resto del cast sono leggendarie.

Da qui iniziai il mio viaggio di esplorazione nel catalogo di Sondheim: ogni canzone mi apriva una porta nuova, ogni cantante mi rimandava a dozzine di musical che non conoscevo. Ascoltando Sondheim ho scoperto un mondo, quello del musical di Broadway e del West End. Nel giro di un paio d'anni avevo scoperto tutti i musical di Sondheim, ma anche molto del panorama teatrale di Londra e New York: prima solo musical, poi anche tanta drammaturgia americana e britannica dell'ultimo secolo. Il mio inglese migliorò esponenzialmente: odiavo la mia prof, ma mi facevo spedire testi teatrali su Amazon ed imparai l'inglese leggendo i libretti dei musical di Sondheim, ma anche Tennessee Williams, Edward Albee, Peter Shaffer, Terrence McNally, Arthur Miller e tanti altri. Da un ginnasiale a rischio debito in inglese diventai un ottimo studente di inglese e ancora di più quando cominciammo a studiare anche la letteratura. Dopo la maturità classica nel 2014 mi sono trasferito a Londra e ho conseguito la laurea triennale in letteratura inglese e storia del teatro. Nel corso della triennale i miei interessi accademici si sono spostati sulla letteratura elisabettiana e ho poi conseguito la laura magistrale in studi rinascimentali. Ora sto facendo un dottorato sulla poesia inglese dell'ultimo decennio del XVI secolo.

Tutto questo è cominciato con Stephen Sondheim, senza di lui non sarei qui. E non dico "non sarei qui" in senso esistenziale o ontologico, intendo dire che non sarei un dottorando in anglistica che vive a Londra da quando avevo diciannove anni e che ora, nel cuore della notte, scrive questo post su una scrivania a Tottenham. Da quando mi sono trasferito a Londra ho avuto modo di vedere Sondheim due volte, durante due interviste al National Theatre. Entrambe le volte mi ha affasciato con la sua arguzia, la sua intelligenza, la sua passione. Molti dei musical che mi hanno cambiato la vita li ho visti di persona: Gypsy, Sweeney Todd, Follies, A Little Night Music e Company; altri li devo ancora vedere. Ma se penso a Sondheim penso anche alle amicizie che ho stretto a causa sua. Quante ore ho passato durante gli anni del liceo su forum di teatri, a scambiare rari bootlegs online a parlare con altri appassionati di Sondheim su tumblr. Grazie a lui ho stretto amicizie che durano ancora. Scrissi la mia tesina del liceo su di lui. Lo ascoltai durante le rotture più dolorose e i momenti più felici della mia vita. Lo ascolto ancora. Perché nella sua musica e nelle sue parole ci sono abissi di umanità, tutta la solitudine, tutta la gioia, tutta la paura che questa felicità non possa che durare pochi istanti.

Centinaia di persone tu Twitter hanno postato le foto di lettere che si sono scambiati con Sondheim. Perché Sondheim rispondeva a tutti, con parole gentili ed incoraggiamenti, risolveva dubbi, chiariva dei passaggi musicali, ringraziava per i complimenti e si professava felice che la sua musica venisse ascoltata da giovani e giovanissimi. Quando avevo sedici anni gli scrissi anche io. Non ricordo esattamente cosa gli scrissi, ma credo di aver espresso tutta la mia ammirazione e la mia gioia nel fatto che aveva scelto proprio un romanzo italiano, Fosca di Tarchetti, come base per uno dei suoi musical, lo splendido Passion. E una sera, mentre stavo per uscire con compagni di liceo per vedere l'Odissea di Robert Wilson al Piccolo, trovai nella cassetta delle lettere un grosso pacco. Quando lo aprì vi trovai dentro una sua foto autografata, una lettera e il CD della prima edizione londinese di Passion. Non ho parole per dire ciò che quella lettera e quel CD abbiano significato per me. In casa non ho più nessun lettore CD, ormai neanche i portatili li leggono più, ma di quell'album non mi sbarazzerò mai.

Le opere di Sondheim continuano ad essere portate in scena e ad essere reinventate come solo i grandi classici si prestano ad esserlo. A me Stephen Sondheim mancherà tantissimo, come un amico, come un nonno. Poche persone hanno cambiato il corso della mia vita quanto ha fatto lui. La musica è il suo grande lascito ed è con la musica che lo voglio ricordare. Ieri moltissimi artisti di Broadway si sono radunati a Times Square per ricordarlo con il numero di chiusura di Sunday in the Park with George, il suo musical più personale, quello interessato alla difficile vita dell'artista. Quando muore un ebreo non si dice "riposa in pace", ma "il suo ricordo sia una benedizione": ci sono pochissime cose sicure nella vita, come gli ultimi due anni ci hanno ampiamente dimostrato, ma che il ricordo di Stephen Sondheim sia e sarà una benedizione è una delle poche certezze che ho.


"Sunday for Sondheim" a Times Square, 28/11/2021

Lo schiaccianoci alla Royal Opera House

"It's beginning to look a lot like Christmas" è qualcosa che a Londra si può dire già da fine ottobre e con l'accensione dei meravigliosi angeli di Regent's Street a metà novembre la stagione natalizia londinese è ufficialmente iniziata da un pezzo. Ma Natale a Londra non significa solo mince pies e mulled wine, dato che è Lo schiaccianoci di Čajkovskij a farne da padrone e se venite nella capitale britannica nelle prossime settimane avrete modo di scegliere tra ben tre diversi allestimenti del balletto: quello portato in scena dal Royal Ballet a Covent Garden, dall'English National Ballet al London Coliseum e in un'originalissima messa in scena firmata da Matthew Bourne al Sadler's Wells. 

Giovedì sera sono andato alla Royal Opera House per vedere il loro bellissimo Nutcracker, giunto il 25 novembre alla sua 503° rappresentazione con il Royal Ballet. La serata è stata resa ancora più speciale dalla presenza nel pubblico di Sir Peter Wright, il coreografo del balletto il cui novantacinquesimo compleanno ricorreva proprio giovedì. E sono certo che Sir Peter sarà stato fiero del suo lavoro che, come quasi ogni Natale, torna a portare bellezza e maglia a Covent Garden. Certo, come i critici fanno notare dalla sua prima nel 1892, la trama del balletto è molto tenue e, nel secondo atto, anche la parvenza di una trama che si potrebbe intravedere nel primo tempo scompare praticamente del tutto. Ed è un peccato che questo allestimento soffra ancora delle riduzioni imposte dal Covid, che qua si materializzano nel numero ridotto di topi e fiocchi di neve nel primo atto. Resta però vero che neanche il Grinch potrebbe rimanere indifferente a questo miracolo di Natale che, per bellezza, sfarzo e musicalità, non ha eguali sulle scene londinesi.

Fumi Kaneko è la Fata Confetto


Due sono i fattori che rendono Lo schiaccianoci un classico intramontabile: la partirua di Čajkovskij e il talento degli artisti del Royal Ballet. La prima annovera melodie intramontabili come la danza della Fata Confetto e il Valzer dei Fiori, meravigliosamente eseguiti dall'orchestra, superbamente diretta da Koen Kessels. Allo stesso modo, nonostante un paio di sostituzioni dell'ultimo minuto, anche i ballerini sono in ottima forma e regalano un'interpretazione elegante e gioiosa dei passi che a Covent Garden sono già stati danzati per oltre cinquecento rappresentazioni. Fumi Kaneko ha sostituito l'indisposta Natalia Osipova, ma niente nella sua tecnica e luminosità tradiva preoccupazione o poca preparazione. Visto lo scarso preavviso con cui ha sostituito la collega, colpisce soprattutto la splendida alchimia con Reece Clark nel ruolo di un principe Coqueluche particolarmente virile. Così come la prima ballerina giapponese, anche Clark danza divinamente unendo atleticità e raffinatezza. Entrambi sono ottimi quando presi singolarmente, ma è nell'applauditissimo grand pas de deux che raggiungono un vero e proprio trionfo di grazie e armonia.

Meaghan Grace Hinkis (Clara) e Leo Dixon (Hans Peter) alla fine del primo atto

È sempre difficile provare a stabilire chi sia il vero protagonista del balletto: Clara e lo Schiaccianoci dominano il primo atto e quasi spariscono nel secondo, mentre la Fata Confetto e il Principe non mettono mai piede in scena prima del secondo tempo, che però è dedicato interamente a loro. Le sapienti mani di Wright hanno provato a dare equilibrio allo Schiaccianoci facendo ballare Hans Peter e Clara in alcuni dei celebri pezzi del secondo atto, nonché scrivendo un prologo e un epilogo in cui si scopre che lo Schiaccianoci è il nipote dell'onnipresente Drosselmeyer, che si riesce a ricongiungere con il ragazzo solo nella scena conclusiva, dopo che Clara ha spezzato l'incantesimo che lo aveva trasformato in Schiaccianoci. Certo, questo non basta a dare una vera e propria struttura drammatica all'opera, ma permette almeno a Clara e Hans Peter di non essere solo spettatori durante il secondo atto. Questo sarebbe un peccato visto che i giovani Meaghan Grace Hinkis e Leo Dixon sono dei bellissimi protagonisti. Dixon ha sostituito Valentino Zucchetti nel ruolo dello Schiaccianoci: è stata la sua prima rappresentazione nel ruolo di Hans Peter e, nonostante qualche incertezza nel primo atto, se la è cavata più che egregiamente. Di grande bellezza sono stati il suo momento da mimo e la danza russa del secondo atto. Ma del resto tutto il cast regala grandi emozioni per la sua tecnica e affiatamento: sia i momenti più realistici del primo atto che quelli onirici del secondo vengono danzati egregiamente in uno Schiaccianoci che vorremmo non finisse mai. Quindi, se passata per quel di Londra, non esitate e andatevi a far stregare alla Royal Opera House: per entrare nel magico regno della Fata Confetto non dovrete nemmeno uccidere il Re dei Topi, basta prendere un biglietto!

In breve. La magia di Čajkovskij (e del Natale) rivive ancora una volta a Covent Garden.

★★★

giovedì 18 novembre 2021

Macbeth alla Royal Opera House


Nel 1847 Giuseppe Verdi scrisse al suocero per presentare il capolavoro a lui dedicato, descrivendolo come "Macbeth che io amo a preferenza delle altre mie opere". Il modesto successo dell'opera fu motivo di cruccio per il maestro, che rimise mano alla partitura nel 1865 per una nuova versione, anch'essa accolta tiepidamente dal pubblico, questa volta a Parigi. Sarebbe felice però di sapere che negli ultimi settant'anni l'opera è stata decisamente rivalutata ed è ora parte del repertorio dei maggiori teatri del mondo: la Scala inaugurerà la sua stagione tra un paio di settimane proprio con Macbeth, come aveva già fatto nel 1975 con un superbo allestimento con una straordinaria Shirley Varrett e Piero Cappuccilli. Alla Royal Opera House la produzione firmata da Phyllida Lloyd viene messa in scena saltuariamente dal suo debutto nel 2002 e torna ora a Covent Garden per la prima volta dal 2018.  

Il connubio della regia della Lloyd e della scenografia di Anthony Ward regalano un Macbeth stilizzato e claustrofobico, tutto rinchiuso tra mura che rievocano una prigione, un manicomio e il senso di ineluttabilità che attanaglia i protagonisti. In particolare è la corona che i due bramano a rivelarsi il rischio peggiore, una vera e propria gabbia dorata in cui entrano consapevolmente nel momento dell'incoronazione. È una messa in scena semplice e austera che coglie nel pieno lo spirito dell'opera, soprattutto nella sua lettura verdiana. Tuttavia – e giustamente – la grande protagonista della serata è stata la musica, la ricca e inquietante partitura di Verdi, superbamente eseguita dall'orchestra e dal cast. La prima è stata diretta con vigore e precisione dal nostro Daniele Rustioni: si vocifera che sarà lui a rimpiazzare Antonio Pappano nel 2024 e, se così fosse, questo Macbeth dimostra che Covent Garden resterà in ottime mani. Sotto la sua bacchetta l'orchestra ruggisce e dà nuova vita alla partitura, grazie in particolare agli eccellenti ottoni.

Anna Pirozzi e Simon Keenlyside

Il cast non è da meno. Ero leggermente in pensiero per Simon Keenlsyde, il cui Conte d'Almaviva aveva poca voce l'estate scorsa alla Scala, ma qui è ancora in splendida forma. Certo, l'età comincia a farsi sentire e il suo timbro baritonale non è forse più ricco come un tempo, ma Keenlyside trasforma un (piccolo) limite in un'opportunità e usa delle note un po' più metalliche per delineare il conflitto interiore del suo Macbeth. Il suo Pietà, rispetto, amore resta comunque uno dei momenti più profondi e musicalmente impeccabili della serata, in cui il baritono si conferma ancora un interprete di rara sensibilità. Accanto a lui Anna Pirozzi è una Lady straordinaria che, giustamente, ottiene la maggiore ovazione della serata. Una grande presenza scenica, una recitazione intelligente che mescola spietatezze e compassione e una voce che rende pienamente giustizia alle arie e duetti assegnatele da Verdi renda la sua Lady Macbeth un trionfo sotto tutti i punti di vista: le sue Vieni t'affretta, La luce langue (un'aggiunta dell'edizione del 1865) e Una macchia è qui tuttora sono delle autentiche – e applauditissime – gemme.


Pirozzi e Keenlsyde non sono sicuramente le uniche eccellenze in scena. Günther Groissböck è un Banquo carismatico che vorremmo non smettesse mai di cantare, anche se ci dobbiamo accontentare di un ottimo Come dal ciel precipita. Un altro che non dovrebbe mai smettere di cantare è David Junghoon Kim che, nel ruolo di Macduff, commuove con una struggente Ah, la paterna mano, l'unica aria tenorile dell'opera. Completano il cast i giovani Egor Zhuravskii (Malcolm), April Koyejo-Audiger (Dama di Lady Macbeth) e Blaise Malaba (Dottore), tutti dotati di splendide voce e grande presenza scenica, come le loro future carriere sicuramente dimostreranno.

Le streghe

L'unica nota che, se non stonata, risulta almeno dolente, sono i momenti corali. O meglio, alcuni di essi. Oltre a tagliare Lady Macduff, incattivire ulteriormente Lady Macbeth e svariati altri cambiamenti del testo shakespeariano, Verdi moltiplica le streghe, che da tre diventano un coro. Nella visione della Lloyd queste "veggenti" sono ubique e implacabili, conoscitrici di misteri arcani e vero motore della tragedia. Le streghe spostano la scenografia, consegnano lettere, salvano Fleance dagli assassini ed incombono nel momento dell'incoronazione di Malcolm, suggerendo così futuri risvolti tragici che turberanno l'ordine appena stabilito. Con i loro turbanti rossi e il monosopracciglio (alas, niente barba!), le streghe hanno un grande impatto visivo, ma non sono altrettanto ben riuscite a livello acustico: cantano bene, ma la dizione è povera ed è impossibile sentire più di un paio di parole qua e là. È un peccato, anche perché a loro vengono affidati gli inizi del primo e del terzo atto, il cui impatto viene leggermente tarpato da un esordio non brillantissimo. Decisamente meglio riusciti sono i momenti corali di Si colmi il calice (in cui la Pirozzi regna sovrana, in tutti i sensi) e la meravigliosa Patria oppressa!: il tabelau di profughi orchestrato dalla Lloyd nel 2002 si dimostra tragicamente attuale.

In breve. Due grandi talenti italiani sono il cuore di un Macbeth musicalmente superbo e, in particolare, la direzione musicale di Rustioni suggerisce che non dovrà ricorrere al regicidio per rimpiazzare Pappano.


★★★½