mercoledì 15 febbraio 2017

The Boys in the Band al Vaudeville Theatre


Debuttato a New York un anno prima dei Moti di Stonewall, The Boys in the Band cattura un istante della vita della comunità gay urbana pre-AIDS. Quello di Mart Crowley è un testo controverso e disincantato, che ha suscitato aspre critiche nella stessa comunità LGBT per il modo in cui i gay sono rappresentati. Eppure, è anche un dramma di grande importanza nel panorama statunitense, una storia su persone costrette a vivere ai margini della società e ghettizzate dall'omofobia. Nel 1970 il regista William Friedkin ha realizzato una trasposizione cinematografica della pièce, Festa per il compleanno del caro amico Harold, considerato il primo film di Hollywood a trattare apertamente il tema dell'omosessualità. Nove amici gay si riuniscono per celebrare il compleanno di Harold e, con il passare delle ore, il tasso alcolico e la crudeltà reciproca aumentano fino a sfociare in un gioco pericoloso che metterà a nudo l'anima di tutti i partecipanti. 

Nonostante gli sforzi congiunti di un ottimo cast tecnico e artistico, The Boys in the Band è inguaribilmente vittima del tempo e dei suoi difetti strutturali. La produzione originale di New York rimase in scena per oltre mille repliche, ma ora ci sono numerosissime altre opere teatrali che affrontano gli stessi temi in modo più coerente, appassionante e articolato. Non metto in dubbio che quasi cinquant'anni fa questo dramma sia stato di grande impatto e che generazioni di spettatori si siano finalmente riconosciuti nei personaggi in scena, ma oggi come oggi questi Boys appaiono sorprendetemene privi di attualità. Certo, di fondo c'è un grosso problema nella struttura della piece: il primo atto è una divertentissima commedia, il secondo un drammone crudele. Nulla segna il passaggio di tono dal primo al secondo atto se non l'intervallo: il cambiamento d'atmosfera è brusco, stridente e assolutamente immotivato. E lo stesso è vero per Michael, il padrone di casa, il protagonista della piece: nel primo atto è spiritoso e impacciato, nel secondo un carnefice senza pietà. Ora, dando a Cesare quello che è di Cesare, il dramma ha anche i suoi buoni momenti: il primo atto è godibilissimo e ci sono momenti di grande impatto anche ne secondo. Tuttavia, anche se è facile intuire le motivazioni, la mancanza di sfumature impedisce al dramma di arrivare ai livelli a cui aspira. Laddove Yasmina Reza padroneggia l'arte di far salire impercettibilmente la tensione fino al punto di non ritorno, Crowley va giù troppo pesante.

Il cast

Se Michael è un personaggio così incoerente non è certo colpa di Ian Hallard, che anzi fa il possibile per umanizzarlo dandogli tocchi di grande umanità. Davvero ottimo James Holmes nel ruolo dell'effeminatissimo Emory, Ben Mansfield in quello del fedigrafo impenitente Larry e l'adorabile Jack Derges nella parte del gigolò con i sensi di colpi. Mark Gatiss (Doctor Who, Sherlock) fa scintille nel ruolo di Harold, un personaggio decadente dalle battute taglienti come lame; è un peccato che, come scritto da Crowley, il ruolo si limiti solo a una serie di battute a effetto, Gatiss sarebbe stato incredibile se avesse avuto del materiale migliore su cui lavorare. Bravi anche Daniel Boys (Donald), John Hopkins (Alan), Greg Lockett (Bernanrd) e Nathan Nolan (Hank).

Il regista Adam Penford ha tirato fuori il meglio dagli attori e dal testo e, anche se il risultato finale rimane altalenante, mette in scena con straordinaria lucidità il disprezzo che i personaggi nutrono per loro stessi e per gli altri. Bella la scenografia di Rebecca Brower, che ci mostra un appartamento decorato con gusto e che rivela l'orientamento sessuale del proprietario con i poster di Judy Garland, Bette Davis e Rosalind Russell. 

In breve. Un buon allestimento di un dramma che, pur avendo una sua importanza in un certo genere teatrale, non ha retto bene alla prova del tempo.

★★★

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