Cabaret al Kit Kat Club
Dopo quasi due anni il Playhouse Theatre ha riaperto i battenti. Molti di noi sono cambiati durante la pandemia: c’è chi ha messo su peso, chi ha cambiato professione, chi si è laureato, chi ha scoperto un nuovo hobby o trovato l’amore. Il Playhouse Theatre invece è diventato un club berlinese degli anni trenta. Il musical Cabaret torna infatti sulle scene londinesi dopo diverse stagioni e così anche Eddie Redmayne, l’attore premio Oscar che non recitava a teatro da oltre dieci anni. Per questo duplice ritorno non si è badato a spese e il Playhouse è stato completamente ristrutturato e trasformato nel Kit Kat Club: non più un classico teatro con il palco incastonato nel proscenio, ma una sala dalla capacità ridotta a 550 spettatori con uno spazio scenico al centro circondato dal pubblico su quattro lati. Cabaret al Kit Kat Club non è solo un musical, ma un’esperienza: non si entra più nel foyer, ma da quella che era l’ingresso per gli artisti e il pubblico cammina lungo uno stretto cunicolo per emergere in un bar in cui comparse si aggirano tra gli spettatori. Prima ancora dell’inizio dello show, il pubblico è trascinato nella Germania degli anni trenta da instancabili ballerini (un po’ troppo moderni per essere d’epoca) che aiutano a creare un’aura di studiata sregolatezza.
Cabaret debuttò a Broadway cinquantacinque anni fa, il glorioso prodotto di una fenomenale collaborazione tra il librettista Joe Masteroff, il paroliere Fred Ebb, il compositore John Kander e il regista Harold Prince. Sei anni più tardi divenne un successo mondiale quando Bob Fosse diresse l’omonimo adattamento cinematografico che consacrò definitivamente Liza Minnelli e si aggiudicò una mezza dozzina di premi Oscar. Tuttavia il musical, tratto dallo splendido Addio a Berlino di Christopher Isherwood, subì diversi rimaneggiamenti da parte di Fosse, tanto da essere a mala pena riconosciuto dagli autori alla prima del film. Al contrario della pellicola, che dà forma e struttura alla storia, il musical Cabaret è per sua natura episodico, una serie di vignette in cui le vite dei protagonisti sono intervallate alle sfrenate e decadenti esibizioni nel locale di cabaret. Lo scrittore americano Cliff arriva nella Berlino negli anni 30 e conosce Sally Bowles nello squallido Kit Kat Club, il locale in cui la donna si esibisce. Sally, una delle più grandi creazioni del teatro musicale, è una ragazza britannica con poco talento ma il grande sogno di sfondare come cantante. Cliff e Sally si mettono insieme e vivono felicemente nella pensione di Fräulein Schneider, che intanto si è fidanzata con Herr Schultz, un fruttivendolo ebreo. Ma l’ascesa del regime nazista costringerà tutti i personaggi a rivedere le loro relazioni e fare scelte da cui non si torna indietro.
Un vero e proprio concept musical, Cabaret darebbe filo da torcere a qualunque regista: la trama non è lineare e qualunque interprete dello show deve capire come rendere i numeri del Kit Kat Club. Nella produzione originale, Harold Prince li usava come commento politico e sociale, un vero e proprio barometro che segnava l’aumentare della pressione del nazismo sulla Germania: il grande specchio che faceva da sfondo al palco serviva a ricordare al pubblico che osservare in silenzio equivale ad essere complici e per capire come mai il nazifascismo è riuscito a fare quel che ha fatto basta semplicemente guardarsi in faccia. Rebecca Frecknall è un'ottima regista e qualche anno fa ha diretto una delle cose migliori che abbia mai visto a teatro, uno splendido allestimento di Estate e fumo di Tennessee Williams. Cabaret è il suo primo musical e a tratti si ha l'impressione che abbia fatto il passo più lungo della gamba. Sia chiaro, questo Cabaret non è affatto diretto male e solo una regista di primissimo ordine saprebbe tirare fuori da tutto il cast performance di questo livello. Ma alcuni numeri musicali, soprattutto quelli metateatrali, mancano un po' di coerenza e più che scegliere una chiave di lettura, la Frecknall sembra approcciare ogni diverso numero del Kit Kat Club come una serie di singole unità indipendenti. Questo è particolarmente evidente nel primo atto, che ci mette un po' a carburare: il momento in cui Cabaret comincia a funziare è circa una ventina di minuti dall'inizio, quando Sally si trasferisce da Cliff. I primi numeri musicali sono energici e vivaci, ma mancano di una visione generale: il numero d'apertura Willkommen e le prime due canzoni di Sally (Mein Herr e Don't Tell Mama) sembrano un pochino sprecate nel loro stato attuale, nonostante le ottime prove d'attore che le accompagnano. Fortunatamente è un disagio solo temporaneo e dopo un inizio incerto il musical acquista velocità e, in particolare, il secondo atto scorre rapido e diventa di scena in scena sempre più agghiacciante.
Eddie Redmayne è il Maestro di Cerimonie
Jessie Buckley non è da meno e la sua Sally è una delle migliori interpretazioni che si possa vedere in un musical da diversi anni a questa parte. Chi è Sally Bowles? Una ragazza inglese viziata che si trasferisce a Berlino per diventare una star – e lo diventa, ma solo in un sordido club. Non legge i giornali, non parla di politica, non sa niente del nazismo. Lei canta, balla, rifiuta di essere qualunque cosa tranne che se stessa e non lascia che niente e nessuno si metta tra lei e le suoi illusioni. Ricorda moltissimo la Holly Golightly di Capote, un personaggio effettivamente ispirato a quello di Isherwood, ma non è certo la Holly di Audrey Hepburn: c'è qualcosa di ferale in lei, un desiderio di proteggere con le unghie e con i denti un sogno che in fondo sa che non si realizzerà. È questa natura ammaliante e selvatica che rende la Sally della Buckley una performance così ben riuscita, quel suo essere sempre in equilibrio come una sonnambula a cui il risveglio potrebbe essere fatale. Affronta i suoi numero di apertura con ferocia, ma rinfodera gli artigli e comincia a fare le fusa quando convince Cliff ad accoglierla nella sua camera e nel suo cuore, con una Pretty Marvellous in cui la si riconosce come una consumata attrice teatrale. Il sogno di un affetto, una famiglia e una stabilità non riescono a non toccarla – anche se solo fugacemente – e l'attrice canta una toccante Maybe This Time più a se stessa che al pubblico. Nelle sue mani esperte la sua ultima canzone, la straordinaria Cabaret, diventa un inno all'autodistruzione: peccato solo che la messa in scena in the round la costringa a girarsi ogni pochi secondi, rovinando così la naturalezza della scena. Resta comunque il fatto che quella della Buckley sia una grandissima interpretazione e speriamo che il cinema non la porti via delle scene a lungo.
Se Redmayne e Buckley sono la mente e il braccio di Cabaret, il cuore dello spettacolo sta nei suoi due personaggi minori: l'affittacamere Fräulein Schneider e il fruttivendolo Herr Schultz. La prima è interpretata magistralmente da Liza Sadovy, che entra timidamente dopo le due star internazionali che fanno da protagoniste allo show ma ne esce come la vera vincitrice della serata. La Sadovy regala un'interpretazione che racchiude lo spirito di un Paese: la sua Schneider è una donna che è sopravvissuta a tutto (come ci ricorda in So What?) e si rende conto che l'immobilità e l'inazione la preserveranno – o almeno così spera – anche dal nazismo. La sua What Would You Do?, in cui rinuncia a sposare l'ebreo di cui è innamorata, è il vero cuore della serata, la chiave di lettura che possiamo usare per leggere tutto l'allestimento: la Frecknall, al contrario di Sam Mendes o Rufus Norris, non ci porta nei lager nazisti, ma si ferma a ciò che avvenuto prima, l'omologazione di un intera nazione in un ideale in cui si è riconosciuta o ha finto di riconoscersi per amor del quieto vivere. Nel ruolo di Herr Schultz troviamo un ottimo Elliot Levy, con cui la Savoy forma una coppia perfetta: i due sono toccanti ed esilaranti nel duetto It Wouldn't Please Me More, in cui flirtano goffamente intorno a un ananas, e Married, che dona una toccante vignetta di una vita coniugale che non si realizzerà mai. Ed anche Levy ci offre con modestia un'altra chiave di lettura: il suo Herr Schultz si rifiuta di emigrare perché si ritiene un tedesco a tutti gli effetti e si illude di conoscere il proprio Paese.
L'americano Cliff, reso celebre da Michael York nel film, è interpretato da Omari Douglas, recentemente reso noto da It's a Sin. Tutte le persone che ho sentito lo ritengono l'anello debole del cast, ma a me è piaciuto tantissimo. Nel corso degli anni e delle messe in scena, il personaggio di Cliff è diventato sempre più apertamente bisessuale, ma per molti versi Douglas è più credibile come un Cliff omosessuale. Molti si lamentano che nella sua performance manchi assolutamente qualunque senso di attrazione nei confronti di Sally: i due non funzionano mai come coppia. Effettivamente è vero, quando Sally annuncia di essere incinta si stenta a credere che Cliff possa essere il padre. Ma Douglas, forse neanche senza volerlo, trasforma questo "limite" in un punto di forza: la loro relazione è così impossibile, così evidentemente votata al fallimento, che il suo disperato tentativo di tenerla insieme spezza veramente il cuore. Perché il pubblico sa, così come Sally, che la loro relazione non potrebbe mai funzionare. Cliff fa poco in scena, il suo è forse il personaggio meno interessante. Ma Douglass lo rende così profondamente umano che per una volta riusciamo a ricordarci che in fondo Cabaret ha tre protagonisti. Nei ruoli minori di Fräulein Kost ed Herr Ludwing spiccano Anna-Jane Casey e Michael Stewart (Fiddler on the Roof). La Casey era finita sui giornali durante i lockdown perché in piena pandemia si era dovuta reinventare come rider per Deliveroo: è splendido rivederla in scena e apprezzare ancora una volta la sua voce potente, il suo carisma e il suo grande talento nella danza.
Omari Douglass (Cliff) e Jessie Buckley (Sally)
Molto bravi anche i ballerini e le ballerine che completano il cast, così come ottime sono le coreografie di Julia Cheng e le scenografie del già citato Tom Scutt. Molto buona anche la direzione musicale di Jennifer Whyte, che dirige con destrezza l'ottima band dal vivo. Le produzioni immersive come questa tendono sempre a suscitare grande interesse nel pubblico, anche se spesso sono dei veri e propri specchietti per le allodole. Tutta l'atmosfera pre-spettacolo del Kit Kat Club risulta un po' troppo artificiosa e contemporanea – per non parlare che i tavolini intorno al palco in cui gli spettatori si siedono per diventare veri e propri avventori del locale anni 30 hanno sollevato importanti questioni su quanto cari possano essere i biglietti per il teatro. Se alcuni degli sforzi usati per preparare questa Disneyland berlinese fossero stati diretti al musical di per sé sono sicuro che gli elementi che claudicano un po' avrebbero potuto essere sistemati entro la sera prima. Ma del resto la Frecknall si è trovata in una brutta posizione: dirigere due star internazionali non è facile, soprattutto quando il regista (o la regista) in questione non si avvicina lontanamente a loro in termini di riconoscimento e fama. Si ha a tratti l'impressione che alcune scelte avrebbero potuto essere più precise e puntuali: questo Cabaret è molto, molto buono ma a tratti si avverte che la mano che tiene le redini non è fermissima. A marzo Redmayne e la Buckley lasceranno il cast e sono sicuro che visto le spese affrontate per trasformare il teatro, i produttori cercheranno altre due star con cui rimpiazzarli. Il Cabaret diretto a Broadway da Sam Mendes andò avanti così per sei anni, rimpiazzando i protagonisti ogni pochi mesi con delle star del cinema, del teatro e della televisione. Mi auguro che questo Cabaret possa avere altrettanto successo, soprattutto se al momento in cui i due protagonisti passeranno il testimone la regia riuscirà ad aggiustare un po' il tiro e rendere questo potente allestimento un vero e proprio capolavoro.
In breve. Questo intenso revival vi trascinerà nella Berlino degli anni trenta grazie alla sua messa in scena coinvolgente e un cast di raro talento.
★★★★
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