domenica 26 febbraio 2017

The Wild Party a The Other Palace


Il controverso musical del compositore Michael John LaChiusa e del librettista George C. Wolfe finalmente approda nel West End a diciassette anni dal debutto a Broadway. Per l'occasione, il regista Drew McOnie ha radunato un cast d'eccezione per portare in scena la sfilata di vizi del musical di LaChiusa.

La relazione tra Queenie ed il violento Burr sta giungendo al termine e la coppia decide di ospitare un party a base di gin, cocaina e promiscuità per tentare di riallacciare il rapporto. Tra gli invitati ci sono la stella in declino Dolores, Kate e il giovane fidanzato Black, il polisessuale Jackie, i fidanzati/fratelli Oscar e Phil, la spogliarellista Madelaine e la sua fidanzata morfinomane Sally, il pugile Eddie, la moglie Mae e la cognata minorenne Nadine. Il party degenerate velocemente e sfocia in una serie di violenze, ripicche, tradimenti e gelosie che porteranno a un omicidio.

Tratto dall'omonimo poema satirico di Joseph Moncure March, The Wild Party è un Chicago all'ennesima potenza: con il celebre musical di Kander & Ebb condivide l'ambientazione (i ruggenti anni venti), lo stile (spiccatamente jazz), le eccellenti coreografie e il clima di ipocrisia. Ma le somiglianze terminano qui: dove Chicago è godibile e divertente, The Wild Party è intenso ed estenuante, un susseguirsi di personaggi e scene una più intensa dell'altra. E' così intenso che quando si giunge al vero climax si resta un po' indifferenti, visto che difficilmente riesce a superare l'efferatezza e la violenza della precedente ora e mezza. E' un musical costruito in un crescendo e l'intervallo (assente nelle produzioni precedenti) non aiuta... forse avrebbero dovuto preferire la coerenza artistica agli incrementi dei guadagni del bar. La colonna sonora di Michael John LaChiusa ha una sua bellezza, così come i suoi versi graffianti, ma i non amanti del jazz si sono lamentati di una certa ripetitività. Il libretto di George C. Wolfe risente duramente dell'intervallo, che trasforma la prima parte in un lunghissimo prologo senza nessuno sviluppo narrativo.


The Wild Party segna l'inaugurazione del The Other Palace dopo essere stato acquistato e ristrutturato interamente da Andrew Lloyd Webber e, non c'è che dire, la produzione non ha badato a spese: la scenografia di Soutra Gilmour è bella e funzionale, le luci di Richard Howell efficaci ed abbaglianti e i costumi di Chris Cahill hanno un'eleganza decadente. Un grosso problema è il suono, imputabile a Tony Gayle: l'orchestra è ottima, ma se sovrasta gli attori è un problema. Drew McOnie veste i panni impegnativi di regista e coreografo e, anche se la regia non porta niente di nuovo, le coreografie sono fantastici e probabilmente l'aspetto migliore dell'intero musical: energiche, potenti, entusiasmanti.

Ma quello che rende wild questo party è il cast fenomenale che lo compone. Nei panni di Queenie troviamo la veterana del West End Frances Ruffelle (Les Misérables), che usa il suo timbro sensuale e lamentoso per creare una donna affascinante e sfibrata. Ma la sua Queenie è ottima sotto tutti gli aspetti: certo, superati i cinquanta si farebbe fatica a credere che la Ruffelle sia una ballerina di vaudeville, ma le gambe e il talento dell'attrice zittiscono ogni critica. Il suo complice e amante è il Burr di John Owen-Jones, il grande tenore gallese specializzato nell'interpretare i protagonisti di The Phantom of the Opera e Les Miz: la sua voce è perfetta come sempre e Owen-Jones sorprende con una recitazione intensa, che rende pienamente il fallimento umano e artistico del personaggio.

Frances Ruffelle e Simon Thomas

Il resto del cast è altrettanto valido e tocca l'eccellenza con Victoria Hamilton-Barritt nel ruolo di Kate, l'amica/nemica di Queenie: Victoria è una delle migliori belter di Londra e la sua presenza scenica la rende protagonista indiscussa ogni volta che mette un piede sul palco. Non ci si stanca mai di lei, è un peccato che il suo ruolo sia relativamente piccolo. Accanto a lei l'affascinate gigolò Black, che si avvale della bella voce e dei lineamenti cesellati di Simon Thomas. Dex Lee regala una performance particolarmente brillante nei panni di Jackie, il perverso cocainomane che nel corso dello spettacolo andrà a letto praticamente con tutti: Lee non è solo un ottimo attore e cantante, ma anche il ballerino più dotato del cast. Ako Mitchell (Ragtime, Grey Gardens) ha il solito problema nel registro acuto, ma il grave regala brividi. Bravi anche i D'Arnano Brothers di Gloria Oblanyo e Genesis Lynea, la Sally di Melanie Bright e l'ingenua Nadine di Bronté Barbé. Ruba la scena la leggenda di Broadway Donna McKechnie nei panni della fading star Dolores: la sua When it ends è uno dei momenti migliori della serata.

In breve. Buona produzione di un musical che, pur non essendo privo di difetti, costituisce una piacevole alternativa al resto del teatro musicale del West End. Da vedere per l'ottima colonna sonora, le belle coreografie e un cast davvero d'eccezione.

★★★★

venerdì 17 febbraio 2017

Hedda Gabler al National Theatre


Hedda Gabler è uno dei capolavori del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen e una delle eroine più indimenticabili del teatro moderno. Da sempre il ruolo di Hedda attira attrici eccezionali, da Eleonora Duse a Cate Blanchett, da Maggie Smith a Ingrid Bergman, e ora è Ruth Wilson a cimentarsi nella parte sotto la regia di Ivo van Hove (Lazarus).

Hedda ha sposato Jørgen Tesman per ragioni puramente economiche e la sua nuova vita comincia già ad andarle stretta. Un giorno riemerge una figura dal suo passato, il suo vecchio amico Ejlert Løvborg, che minaccia di distruggere la stabilità della coppia e la posizione del marito con un nuovo manoscritto che gli farà ottenere la cattedra universitaria ambita da Tesman. In una notte di bagordi, Løvborg perde il manoscritto ed Hedda lo ritrova: davanti a lei si pone la scelta sul da farsi, se restituirlo al brillante Ejlert o distruggerlo e garantire una continuità alla sua vita mediocre.

Guardando il palco, lo spettatore non ha nessuna difficoltà a capire perché Hedda si senta in trappola: è una stanza grande e fredda, con mura di cemento e senza neanche una porta. Per entrare e per uscire, gli attori devo scendere dal palco, non c'è via d'uscita dalla casa se non al di fuori della finzione scenica. E' bianca e grande e piena di fiori, un po' come un cimitero. E, prima che lo spettacolo inizi, Hedda è già lì, a suonare nervosamente il piano: prima che qualunque parola venga pronunciata, lo spettatore sa che Hedda ha raggiunto il limite, è tormentata, è infelice. Quello di Hedda è un personaggio enigmatico e complicato, è difficile provare simpatia per lei, ma non bisogna neanche disprezzarla troppo. E' una donna che non ha talento per la vita, che fa le cose per inerzia e poi se ne pente: è l'orgogliosa figlia di un generale, una donna non più giovanissima che cerca la bellezza e l'eroismo delle storie della sua infanzia. E' un'esteta in un mondo di persone pedanti, viene reificata e trattata come un trofeo dagli uomini, invidiata dalle donne.

Ruth Wilson è una grande Hedda: libera dai corsetti e da costumi d'epoca, la sua Hedda si muove per la stanza come un cavallo bizzoso, presa da un'inquietudine che non riesce a placare. Ma la forza della sua Hedda è quella di essere molto consapevole, capisce a fondo la propria situazione ed è anche capace di riderci su. La Hedda della Wilson è ironica ed emotiva, ma soprattutto una donna incredibilmente intelligente: il dramma è una partita di scacchi e, anche quando le cose non vanno come vuole, riesce a prevedere le mosse dell'avversario e agire di conseguenza. Il suo incontro con Ejlert (un byroniano Chukwudi Iwuji) è teso e intenso, ma mostra anche i segni dei traumi del passato. Più che al futuro, la sua Hedda è interessata a ricreare un passato scomparso e in cui, presumibilmente, era stata felice: quando Ejlert cade troppo in basso per poter essere ancora l'eroe della sua adolescenza, Hedda lo istiga al suicidio, per purificare i suoi peccati con un'ultima, romantica, vampata di gloria. La performance della Wilson non è mai così intensa come quando immagina il suicidio di Ejlert: lacrime di ammirazione le riempiono gli occhi, tanto è rapita dalla bellezza della scena. Ed è da brivido vederla indurirsi subito dopo, quando scopre che Ejlert è morto in modo maldestro, con una prostituta.

Chukwudi Iwuji e Ruth Wilson

Rigettata dalla vita e con un futuro terrificante davanti a sé, Hedda prende il controllo e fa quello che Ejlert non ha avuto il coraggio di fare: se non può trovare un eroe, sarà lei stessa un'eroina e con un solo colpo diventa la persona che avrebbe voluto da sempre nella sua vita. Una delle idee meglio riuscite di van Hove è quella di isolare Hedda dagli altri personaggi negli ultimi minuti, rendendoli freddi, distanti e inavvicinabili per lei: una scelta che segnala ad Hedda il game over, che è il momento di trovare un'uscita da quella stanza senza pareti. Molto bravo anche il Tesman di Kyle Soller, che riesce prodigiosamente a dare linfa al suo personaggio: il suo Tesman non è il solito professore sbiadito in flanella, ma un giovane sveglio e tanto in gabbia quando Hedda. E, anche se i suoi sforzi di compiacerla sono sempre vani, è toccante vedere come gli si illuminano gli occhi quando lei gli presta un po' di attenzioni. Molto eloquente il momento in cui i due sono seduti sul divano, vicini ma con una distanza incolmabile tra loro, seduti fianco a fianco a fissare il muro, senza niente da dirsi.

Ruth Wilson e Kyle Soller


Rafel Spall è un bravo giudice Brack, l'uomo che si finge amico di Tesman per sedurgli la moglie, mentre Kate Duchêne è un po' legnosa nel ruolo di zia Juliana. Sinéad Matthews (Evening at the Talk House) è ottima nel ruolo di Mrs. Elvsted, un'amica di infanzia di Hedda che ha appena lasciato il marito per Ejlert, con cui ha scritto il tanto discusso manoscritto. Completa il cast Éva Magyar nel ruolo della cameriera: la sua è una figura inquietante che non lascia mai il palco, una testimone silenziosa, una complice, un giudice che preferisce non agire.

In breve. Ottimo revival di un grande classico, magistralmente diretto da Ivo van Hove e con una grande interpretazione di Ruth Wilson nei panni della protagonista.

★★★★

mercoledì 15 febbraio 2017

The Boys in the Band al Vaudeville Theatre


Debuttato a New York un anno prima dei Moti di Stonewall, The Boys in the Band cattura un istante della vita della comunità gay urbana pre-AIDS. Quello di Mart Crowley è un testo controverso e disincantato, che ha suscitato aspre critiche nella stessa comunità LGBT per il modo in cui i gay sono rappresentati. Eppure, è anche un dramma di grande importanza nel panorama statunitense, una storia su persone costrette a vivere ai margini della società e ghettizzate dall'omofobia. Nel 1970 il regista William Friedkin ha realizzato una trasposizione cinematografica della pièce, Festa per il compleanno del caro amico Harold, considerato il primo film di Hollywood a trattare apertamente il tema dell'omosessualità. Nove amici gay si riuniscono per celebrare il compleanno di Harold e, con il passare delle ore, il tasso alcolico e la crudeltà reciproca aumentano fino a sfociare in un gioco pericoloso che metterà a nudo l'anima di tutti i partecipanti. 

Nonostante gli sforzi congiunti di un ottimo cast tecnico e artistico, The Boys in the Band è inguaribilmente vittima del tempo e dei suoi difetti strutturali. La produzione originale di New York rimase in scena per oltre mille repliche, ma ora ci sono numerosissime altre opere teatrali che affrontano gli stessi temi in modo più coerente, appassionante e articolato. Non metto in dubbio che quasi cinquant'anni fa questo dramma sia stato di grande impatto e che generazioni di spettatori si siano finalmente riconosciuti nei personaggi in scena, ma oggi come oggi questi Boys appaiono sorprendetemene privi di attualità. Certo, di fondo c'è un grosso problema nella struttura della piece: il primo atto è una divertentissima commedia, il secondo un drammone crudele. Nulla segna il passaggio di tono dal primo al secondo atto se non l'intervallo: il cambiamento d'atmosfera è brusco, stridente e assolutamente immotivato. E lo stesso è vero per Michael, il padrone di casa, il protagonista della piece: nel primo atto è spiritoso e impacciato, nel secondo un carnefice senza pietà. Ora, dando a Cesare quello che è di Cesare, il dramma ha anche i suoi buoni momenti: il primo atto è godibilissimo e ci sono momenti di grande impatto anche ne secondo. Tuttavia, anche se è facile intuire le motivazioni, la mancanza di sfumature impedisce al dramma di arrivare ai livelli a cui aspira. Laddove Yasmina Reza padroneggia l'arte di far salire impercettibilmente la tensione fino al punto di non ritorno, Crowley va giù troppo pesante.

Il cast

Se Michael è un personaggio così incoerente non è certo colpa di Ian Hallard, che anzi fa il possibile per umanizzarlo dandogli tocchi di grande umanità. Davvero ottimo James Holmes nel ruolo dell'effeminatissimo Emory, Ben Mansfield in quello del fedigrafo impenitente Larry e l'adorabile Jack Derges nella parte del gigolò con i sensi di colpi. Mark Gatiss (Doctor Who, Sherlock) fa scintille nel ruolo di Harold, un personaggio decadente dalle battute taglienti come lame; è un peccato che, come scritto da Crowley, il ruolo si limiti solo a una serie di battute a effetto, Gatiss sarebbe stato incredibile se avesse avuto del materiale migliore su cui lavorare. Bravi anche Daniel Boys (Donald), John Hopkins (Alan), Greg Lockett (Bernanrd) e Nathan Nolan (Hank).

Il regista Adam Penford ha tirato fuori il meglio dagli attori e dal testo e, anche se il risultato finale rimane altalenante, mette in scena con straordinaria lucidità il disprezzo che i personaggi nutrono per loro stessi e per gli altri. Bella la scenografia di Rebecca Brower, che ci mostra un appartamento decorato con gusto e che rivela l'orientamento sessuale del proprietario con i poster di Judy Garland, Bette Davis e Rosalind Russell. 

In breve. Un buon allestimento di un dramma che, pur avendo una sua importanza in un certo genere teatrale, non ha retto bene alla prova del tempo.

★★★

venerdì 10 febbraio 2017

The Pirates of Penzance al London Coliseum 


The Pirates of Penzance è una delle operette più famose del celebre duo Gilbert & Sullivan, una rocambolesca storia d'amore e d'avventura popolata da personaggi memorabili e canzoni esilaranti. Dopo il grande successo del 2015, il regista Mike Leigh (Il segreto di Vera Drake, Turner) riporta la sua produzione, patrocinata dall'English National Opera, sulle scene del London Coliseum.

Al compimento del suo ventunesimo compleanno, Frederic lascia i pirati che lo hanno allevato e si avventura nel mondo, seguito dalla fedele (?) Ruth. Appena sbarcato, si innamora della bellissima Mabel, la figlia del maggiore generale Stanley, ma tutto si complica quando i pirati che lo hanno cresciuto attaccano la spiaggia e pretendono di sposare le belle e numerose figlie di Stanley. Divertenti incomprensioni, bizzarri combattimenti, patriottismo, esaltazione della regina Vittoria e lieto fine a seguire.

Nel mettere in scena un'operetta un regista si trova di fronte a una scelta, se darle un taglio operistico o uno da commedia musicale. Leigh ha optato per il primo, una scelta non insolita, ma che sicuramente riduce (e di molto) l'impatto comico di Pirates. Il primo atto ne risente particolarmente, mentre il secondo brilla di luce propria grazie al libretto di Gilbert e fa dimenticare volentieri le imperfezioni del primo. Un altro passo falso è la scenografia astratta di Alison Chitty, che crea un forte contrasto con i costumi d'epoca: è una scelta interessante, ma anche qui si va a incidere sulla carica comica dell'operetta.

Andrew Shore

Il cast è buono: Lucy Shaufer è una Ruth impacciata e divertente, David Webb presta il suo bel timbro tenorile al giovane Frederic e Ashley Riches è un bravo Re dei Pirati. Nel ruolo del maggiore generale Stanley troviamo un esilarante Andrew Shore che conquista il pubblico con una bella versione di I Am the Very Model of a Modern Major-General. A rubare la scena ci pensano la Mabel di Soraya Mafi ed il sergente di polizia di John Tomlinson: la prima è un ottimo soprano con una falsa aria da ingenua, il secondo ha tempi comici impeccabili e da solo dà linfa al secondo atto. Sempre ottima l'ENO Orchestra, diretta dal maestro Gareth Jones, e una menzione speciale alla divertente e stupendamente cantata Edith del mezzosoprano Katie Conventry.

In breve. Un discreto revival di un classico dell'operetta, ha i suoi bei momenti, ma manca di brio.

★★★½

venerdì 3 febbraio 2017

Amadeus al National Theatre


Amadeus, il capolavoro di Peter Shaffer, è tornato al National Theatre, il teatro in cui tutto cominciò nel 1979. Dopo oltre mille repliche a Broadway e un omonimo film diretto da Miloš Forman e vincitore di otto premi Oscar, la leggendaria rivalità tra Mozart e Salieri torna sulle scene londinesi per la prima volta in quasi quarant'anni, in un nuovo e sontuoso allestimento diretto da Michael Longhurst.

In quella che annuncia essere l'ultima notte della sua vita, l'anziano e dimenticato compositore Antonio Salieri decide di raccontare la storia di come l'incontro con Mozart gli abbia cambiato e rovinato la vita, palesandogli la propria mediocrità in confronto al talento del genio di Salisburgo. Dopo aver sabotato Mozart in ogni modo finché era in vita, con il passare degli anni Salieri vede il proprio nome sbiadire e quello di Amadeus risorgere: se non può essere famoso, allora sarà famigerato e comincia ad accusarsi di aver ucciso Mozart.

Non c'è che dire, il National Theatre non ha badato a spese e quella che lo spettatore si trova davanti è una produzione sfarzosa e opulenta che valica il limite del kitsch. Tutto è intensificato all'ennesima potenza: l'immenso palco rotante, i costumi (stupendi, di Chloe Lamford), la scenografia monumentale, l'orchestra dal vivo (la meravigliosa Southbank sinfonia), il cast, i cantanti d'opera, il coro. Il revival di Longhurst ha il merito di portarci in una Vienna che è decisamente modernizzata, ma che è capace di darci davvero l'idea di com'era essere un compositore di successo all'epoca: desacralizza la musica classica e rende i compositori delle vere rock stars. A tratti sembra strizzare l'occhio a La grande bellezza, con scene sfrenate di balli in maschera in cui i partecipanti non propriamente sobri danzano sulle note di un'elettrizzante versione house della Sinfonia n. 25 in Sol minore. Ma c'è anche la musica in tutta la sua bellezza ed espressività: la Serenata "Gran Partita", il Lacrimosa e scene dal Don Giovanni, Le nozze di Figaro, Il ratto del serraglio e Il flauto magico. Avere un'orchestra di quel calibro sul palco rende pienamente giustizia a quello di cui parla il dramma, alla musica, e crea una colonna sonora che si integra perfettamente con la messa in scena: una decisione potenzialmente pericolosa, ma molto efficace. 

Lucian Msamati

Nel ruolo di Salieri troviamo un titanico Lucian Msmati nella performance di una vita: il grande attore di origine tanzaniana ci mostra il Salieri vecchio e sconfitto e quello giovane e vittorioso, il "tormento e l'estasi" del personaggio, il dolore sordo che accompagna ogni sua decisione. Il momento che chiude il primo atto, con la scenografia che si avvicina al proscenio fin quasi a schiacciare Msmati, folgorato dalla musica di Mozart, è un momento di intensità mozzafiato e il suo Salieri porta in scena ogni sfaccettatura del personaggio. Msmati è un grande Salieri quando l'angoscia lo soffoca ed è un grande Salieri quando guarda con lucido distacco le dimensioni della sua catastrofe. E il momento finale, la celebre assoluzione di tutti i mediocri del mondo, ha una sacralità mai vista prima.

Karla Crome e Adam Gillen

Nel ruolo di Mozart, Adam Gillen è un esaltato al limite dell'isteria, un uomo brillante e tormentato, ossessionato dal padre e non del tutto sicuro di essere un adulto. Nella sua performance ci sono le ferite di un ex bambino prodigio, ma anche un'estenuante certezza di essere il migliore: è difficile non condividere l'odio di Salieri. La performance di Gillen è tutto fuorché sotto-tono, ma fedele alle intenzioni di Shaffer e vivacemente divertente. Molto brava anche la Constanze di Karla Crome e ruba la scena il genio comico di Tom Edden nel panni dell'imperatore Giuseppe II.

Nelle sue tre, intense, opulente ore, questo Amadeus è perennemente in bilico tra l'essere travolgente e l'essere opprimente. E' una produzione massiccia e barocca in tutti i sensi, tutto è potenziato: i tempi, le emozioni, l'intensità. Per motivi tecnici ed economici non ci sarà mai più una produzione grandiosa come questa... per fortuna. Perché questo Amadeus è grande ma estenuante e nel ricchissimo banchetto che ti offre è facile perdersi qualcosa. In fondo in fondo, glielo si più anche perdonare: dopotutto, parliamo d'opera.

In breve. Monumentale produzione di un bel dramma, con una fantastica orchestra e una performance stellare di Lucian Msmati nei panni di Salieri.

★★★★

mercoledì 1 febbraio 2017

She Loves Me alla Menier Chocolate Factory


La Menier Chocolate Factory è uno dei teatri migliori di Londra e sul suo piccolo palco sono nate produzioni che si sono rivelate successi senza precedenti sui palchi di Broadway e del West End. A più di cinquant'anni dal debutto e venti dall'ultima messa in scena londinese, questo revival di She Loves Me scalda ancora i cuori come solo una piccola grande commedia romantica può fare.

Budapest, anni 30. Amalia viene assunta come commessa in una profumeria e dal primo momento comincia a litigare con un suo collega, Georg, senza sapere che l'uomo è il "caro amico" con cui si scambia appassionate lettere d'amore da alcune settimane. Nemmeno Georg sospetta che la sua odiata collega sia in realtà la donna dei suoi sogni e quando lo scopre è sotto shock. Decide allora di provare a conquistare l'ignara Amalia, per vedere se la ragazza del mondo reale è poi così diversa da quelle delle lettere... così, mentre i pittoreschi colleghi della coppia sono affaccendati dai preparativi natalizi, nasce l'amore.

Se la trama vi ricorda qualcosa sappiate che la commedia di Miklós László che ha ispirato She Loves Me è stata anche d'ispirazione per il film C'è posta per te. She Loves Me è un musical delizioso, che si avvale di una stupenda colonna sonora firmata da Sheldon Harnick e Jerry Bock per raccontare una storia a tratti commovente, a tratti esilarante. Le canzoni, dal sapore ungherese, sono eleganti e romantiche, mentre i versi sono pungenti e arguti, in puro stile Harnick. Il libretto di Joe Masteroff è a prova di bomba e resiste perfettamente alla prova del tempo: il secondo atto, in particolare, procede serratamente alternando scene molto toccanti ad altre divertentissimi. La regia di Matt White sa valorizzare la solidità del testo e creare momenti veramente perfetti, incorniciati dalla splendida scenografia di Paul Farnsworth. 

Scarlett Strallen e Katherine Kinglsey

Scarlett Strallen è un'Amalia deliziosa che eccelle sia nel canto che nella recitazione. Canta magistralmente anche i passaggi di coloratura più insidiosi della partitura e unisce perfettamente tocchi da consumata attrice comica ad altri momenti da ingénue... La Strallen non sbaglia mai un colpo e le sue Vanilla Ice Cream e Dear Friend sono da brivido. Accanto a lei, Mark Umbers è un Georg simpatico e dal bel timbro tenorile, un attore carismatico e un grande leading man. E' facile che Georg scompaia nel rapporto con Amalia, ma con Umbers il rischio non si vede mai: la sua è una performance solida, divertente e ben cantata. A rubare la scena a tutti ci pensa l'Ilona un po' cockney di Katherine Kingsley: ha tempi comici da mozzare il fiato e una voce da urlo, la sua A Trip to the Library è un trionfo comico in tutti i sensi e il numero più applaudito della serata.

Il resto del cast non è da meno e altrettanto bravi sono Dominic Tighe (Kodaly), Vincent Pirillo (il  maître) ed il diciassettenne Callum Howells (Arpad). Un po' deludente Les Dennis nel ruolo di Zoltan Maraczek: a Dennis mancano il fascino, il physique du rôle e le note giuste. Ma, Dennis a parte, il resto della piccola ensemble è fantastico e rende pienamente giustizia a questo piccolo grande musical.

In breve. Il miglior musical che potete vedere a Londra, un'indimenticabile commedia romantica con una stupenda colonna sonora un cast più unico che raro.

★★★★